PALMA D’ORO A CANNES NEL 2021, L’OPERA DI JULIA DUCOURNAU SI TIENE STRETTA LA COMODA DEFINIZIONE DI FILM PROVOCATORIO E INNOVATIVO, MA VIAGGIA SUL CONFINE SCIVOLOSO CHE SEPARA UN FILM D’AVANGUARDIA DAL PRODOTTO ASTUTO E CHIC CHE CAVALCA L’EPOCA FLUIDA. UNA PELLICOLA SORRETTA DA UNA VITALITÀ AMMIREVOLE E CON UNA MESSA IN SCENA INCENDIARIA, CHE HA IL MERITO DI DIFFONDERE LE FERTILI IDEE DEL CINEMA UNDERGROUND.

 

Titane                                                                                                 VOTO: 6.5

(Sky/Now)

Nessuno mi può giudicare

Alexia ha una placca di titanio inserita nel cranio a causa di un incidente automobilistico di cui è stata vittima quando era bambina. Da adulta, lavora come ballerina nei motor show, sfoderando la sua sensualità sui cofani delle macchine con cui sembra avere una speciale e morbosa compatibilità. Ed è una serial killer per motivi inafferrabili. Un’implacabile macchina omicida. In fuga dalla polizia, Alexia assume l’identità di un ragazzo scomparso anni prima, figlio di un comandante dei pompieri. Con quest’ultimo nascerà un legame inusuale.

“Titane”, il film, è una creatura focosa e scomposta come la sua protagonista che, a sua volta, ne rappresenta il corpo-motore sospinto da un’energia disordinata, che carbura intorno a un debordante desiderio di ricodifica del corpo stesso.

Alexia si camuffa, soffoca la femminilità avvolgendola con delle bende che la feriscono, nasconde la sua gravidanza, si rompe volontariamente il naso per assomigliare al maschio di cui vuole rubare l’identità. In modo simile, in convergenza con il suo personaggio principale, l’opera di Julia Ducournau attraversa metamorfosi, sciogliendosi fluidamente nel melò, al tramonto della storia, dopo aver visitato i territori del body horror, del thriller erotico e le tappe scollegate di un romanzo di formazione express.

La scena più controversa del film è quella dell’orgasmo all’interno di una Cadillac, in cui Alexia rimane incinta proprio dell’automobile. Letteralmente. In senso cyber-biblico. In una sorta di manifesto simbolico che sancisce l’esclusione del maschio dal classico trittico formato dall’uomo, dalla donna e dai motori, in cui, solitamente, le donne e i motori sono i passivi oggetti del desiderio e dello sguardo maschile.

Ingravidata dalla macchina, Alexia non perde sangue. Dai capezzoli e dalla vagina gocciola abbondante l’olio motore perché nel grembo-portabagagli batte il cuore di una creatura fatta di carne e titanio, su cui luccica una spina dorsale metallica. Il bambino fiorirà da un corpo ormai sporco e ultra martoriato, che ha smesso di essere corpo come lo intendiamo noi per travalicare i codici consueti.

Il corpo in “Titane” è un intralcio, una carrozzeria graffiata, un dispositivo usa e getta che si può pure sfasciare e sbriciolare. E che ritrova la sua armonia solamente quando danza, quando esce dai suoi confini per esprimersi. Il corpo serve principalmente per provare a collegare la propria identità, quella autentica, con il mondo là fuori. Anche la sceneggiatura, del resto, sembra più un ostacolo protocollare per un film che vibra soprattutto dell’urgenza di creare uno spazio estetico visivo.

Alexia, latitante e goffamente trasformata in uomo, entra nella vita di Vincent, un comandante dei pompieri, il quale non vede, o fa finta di non vedere, la simulazione in atto: accoglie Alexia come se fosse davvero il figlio Adrien scomparso. Reso cieco dal dolore e destabilizzato dagli steroidi, di cui si droga per arginare un machismo al tracollo, il pompiere coinvolge Alexia/Adrien nella vita maschia da caserma, instaurando con lei/lui un rapporto dalla difficile collocazione, come fosse un rapporto ubicato in un altrove inesplorato, fuori dall’anagrafe dei rapporti standardizzati.

Julia Ducournau, al suo secondo lungometraggio dopo il cannibalesco “Raw – Una cruda verità”, mette in scena la relazione conflittuale e amorosa tra carne e metallo, rielaborando in maniera punkeggiante e meno filosofica la visione di David Cronenberg, con chiaro riferimento a “Crash” che vinse Cannes nel 1996. Sebbene il capolavoro di Cronenberg fosse più incentrato sulla libido derivante dal rapporto uomo-macchina, mentre “Titane” punta dritto verso il dramma esistenziale e familiare, l’amore genitoriale e, soprattutto, verso l’imposizione spavalda di un’identità esterna alle classificazioni.

Il pensiero per i cinefili più irriducibili e feticisti va anche alle opere del Shin’ya Tsukamoto, senza raggiungere le vette laceranti e maniacali del regista giapponese. Ma facendosi scudo con il personaggio ‘biological freak’ di Alexia, la Ducournau ha il merito di aver esposto in ambito festivaliero, a volte abitudinario, il vessillo del cinema sommerso con un film da fruire superando le inverosimiglianze. Perché il cinema è, deve essere anche una fede inflessibile e cieca che insegue l’inverosimile.

Solitamente per il film come “Titane” si usa l’inflazionato refrain che recita ‘o si odia, o si ama’. Noi ci collochiamo nel mezzo, giudicandolo un’ipnotica fiaba metropolitana, un’opera disinibita e diseguale, da vedere con occhi nuovi, tenendo bene a mente che accoppiandosi con l’horror e con i suoi molteplici sottogeneri il cinema ha spesso concepito i suoi figli più interessanti.

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