Don’t Look Up                                                      (Netflix)

Il ritocco (im)perfetto

“DON’T LOOK UP È UN FILM MANIFESTO DEI NOSTRI TEMPI OPPURE UN FILM ‘SELFIE’ CHE AMA METTERSI IN POSA CON COMPIACIMENTO DOPO ESSERSI RITOCCATO?

E’ UN CINEMA, QUELLO DELL’ULTIMA OPERA DI ADAM MCKAY, CHE VUOLE MANDARE UN MESSAGGIO AL NUGOLO DI ESSERI UMANI DI CUI SI FA BEFFE, OPPURE SI ACCONTENTA DI GRAFFIARE LO SPECCHIO METTENDOSI SU UN PIEDISTALLO SENZA SCENDERE IN CAMPO?

Forse entrambe le cose. Sicuramente è un film per il quale sarebbe lecito approfondire il discorso sulla fruizione, su ciò che il pubblico richiede e che gli algoritmi certificano a spanne, su ciò che il pubblico ama vedere per continuare a vivere in una bolla, come se fosse l’amministratore di un ideale sito chiamato: hosempreragioneio.com. Ma se fosse proprio questo il riuscito gioco di prestigio di “Don’t Look Up”? Renderci cioè incerti se guardare il dito o la luna? O la cometa, se preferite?

Perché Don’t Look Up è un film manifesto                       voto 7

Non c’è dubbio che il disaster-movie virato in commedia da Adam McKay e dal suo parterre de roi di attori (Leonardo DiCaprio, Jennifer Lawrence, Meryl Streep, Cate Blanchett, Jonah Hill e Ariana Grande) rappresenti una sintesi dissacrante della confusione imperante nel mondo attuale e di quel corto circuito tra realtà e finzione, realtà social e finzione social, che ormai costituisce una palude non più guadabile in cui non ci resta che sopravvivere. Il Big Bang della rivoluzione tecnologica è ormai alle spalle e, per citare il film di Pif (qui da noi recensito), noi come stronzi siamo rimasti a guardare, in un mix di letargo della ragione e spericolato masochismo. Forse ognuno di noi, inconsciamente, ha deciso che i benefici superano i rischi e che nemmeno un’imminente sciagura definitiva che cancelli l’umanità può salvarsi dalla banalizzazione e dalle spaccature in seno al tessuto sociale. Grattando la superficie scintillante di “Don’t Look Up”, alla coraggiosa e faticosa ricerca di un sottotesto artisticamente più sopraffino, troviamo proprio una sorta di paradigma dell’incuria intellettuale che gradualmente ha contagiato il genere umano ormai attivo opinionista di e su tutto. E non gioca di certo a nascondino questa sorta di regime in cui ci siamo immersi: una dittatura del sarcasmo che prevede la trasformazione in meme di qualsiasi messaggio, missiva, dottrina o scoppio d’ira che possa scalfire il piccolo mondo ultramoderno in cui ci siamo rinchiusi. O la bolla suddetta. Sia questa minaccia una cometa grossa come l’Everest, il Riscaldamento Globale o un virus, la sensazione è che il genere umano del girone dei mediamente ricchi non accetti di fare un passo indietro sulla tipologia di vita comoda che ha scelto per se stesso. Ecco quindi che “Don’t Look Up” può essere visto come un immenso dramma che unisce la paura e la saturazione della comunicazione. Talmente satura da diventare incapacità di comunicare. La surreale impossibilità di essere presi sul serio se si minaccia la bolla. E la condanna a dover affrontare un circo mediatico in cui le ormai fiacche simulazioni di vita vissuta della televisione rincorrono la rapidità dei social, in un miscuglio che vede tutti sullo stesso piano: scienziati, starlet, anchormen, odiatori, amatori. Nessuno è davvero più un solito ignoto nel momento in cui possiede un account. La democrazia digitale è servita su “Don’t Look Up”. E se ne vedono le derive fisiologiche. L’astuzia di McKay sta nell’impiattarla facendo contenti tutti.

Perché Don’t Look Up è un film Selfie                                     voto 5

Di didascalismo non si muore, ma un cinema eccessivamente didascalico, plateale e avaro di sottotesti rischia l’agonia, perché rincorre i gusti del pubblico. Per la precisione sceglie il proprio pubblico e poi cuce su misura un film che sia irreprensibile per i suoi seguaci. Proprio come farebbe un algoritmo. O come un selfie ritoccato con photoshop. Adam McKay ci mette tutto per stare dalla parte dei giusti. In un diluvio di tag. La presidentessa donna ricalcata sulla rozzezza politica di Donald Trump, il figlio della presidentessa con la sua impertinente incompetenza. Poi il CEO del colosso della tecnologia che di questa società in cui viviamo è inventore, finanziatore e manipolatore. Affida a Leonardo DiCaprio e Jennifer Lawrence il ruolo di scienziati intelligenti e nerd costretti a misurarsi con l’umana grossolanità. Gli interessi politici ed economici che prevalgono su quelli sociali. Sembra un film scritto negli anni 50 con i buoni tutti da una parte e i cattivi tutti dall’altra. Adam McKay non spinge nessun pedale della macchina commedia. Non ha il coraggio della parodia, non vuole rischiare di perdere una fetta di pubblico aggiungendo ingredienti troppo demenziali, non si concede l’esasperazione della farsa o del grottesco. Il sospetto è che non voglia inimicarsi il pubblico selezionato, di non essere egli stesso (il regista) o esso stesso (il film) vittima di qualche meme virale. McKay inserisce centinaia di dettagli per avvalorare la sua tesi, mette sapientemente tutti i tasselli nel posto dove noi ci aspettiamo di trovarli, non ci risparmia nemmeno il prevedibilissimo epilogo post-apocalittico dei ricconi che scendono dall’astronave su un pianeta sconosciuto e la susseguente gag già annunciata nel pre-finale. Certo, per apprezzarlo bisogna parteggiare per tutto ciò che sia adiacente al progressismo brandizzato dal Partito Democratico americano, bisogna essere partecipi di una certa visione del mondo che sia culturalmente maggioritaria. Bisogna essere consapevoli del solco in cui camminiamo, ma senza la spinta al cambiamento. I fessi e i colpevoli sono sempre gli altri. Una cosa soprattutto manca a questa commedia di denuncia. L’amarezza. Quello strisciante senso accusatorio che rimane sotto la pelle. Che senza scomodare i padri della commedia all’italiana, dei ‘mostri’ e dei ‘ brutti, sporchi e cattivi”, o nemmeno baluardi del genere come il miglior Woody Allen e tutto Billy Wilder, si spera possa essere ancora trovato altrove, in un altro cinema, senza cercare nemmeno con il lanternino. Nel giudizio finale pesa quindi il divario fra l’ambizione del film e la sua resa, il sospetto che l’intrattenimento (sacrosanto) ridimensioni l’atto d’accusa. “Don’t Look Up” parla di se stesso senza accorgersene. Se si decide di optare per un film domestico con punto di arrivo Netflix si finisce per confezionare un film addomesticato.

2 commenti

  • Luke ha detto:

    Le denunce si fanno contro ciò che nessuno sapeva, non contro ciò che sanno già tutti.
    È un selfie grande come una montagna.
    Noioso.

  • Stefano ha detto:

    SPOILER
    Non mi trovo assolutamente d’accordo su tutta la seconda metà della recensione. Il discorso dei buoni da una parte e i cattivi dall’altra non sta minimamente in piedi, anzi, nel film viene ampiamente criticata anche la fazione dei “buoni”, primo fra tutti il personaggio di Di Caprio, vittima a sua volta del fascino scintillante di tutto il carrozzone mediatico, della giornalista in carriera, dell’uomo d’affari incallito mascherato da filantropo, tanto vittima da diventare testimonial egli stesso della campagna di “addomesticazione” della cometa a beneficio del circolo dei ricchi e potenti, dimenticando quello per cui si era messo in prima linea fino al giorno prima. Viene criticata aspramente tutta la promozione delle idee “buone” e il movimento dei “look up” diviene a sua volta una grande macchina macina soldi con un concerto degno della fine del mondo in cui il contenuto svanisce completamente di fronte allo show, alla spettacolarizzazione, alla promozione mediatica. Trovo la critica molto più profonda di quella individuata dal recensore, perché non sono solo i “cattivi” a rimetterci la faccia qui, loro sono semplicemente degli idioti così chiusi nel loro mondo da non rendersi conto nemmeno di avere una spada di Damocle di 9 km sulla testa. A fare la figura peggiore qui sono proprio i “buoni”, incapaci di svincolarsi dalla ragnatela di estetica, profitto e vuotezza che ormai non risparmia niente e nessuno.

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