I CARE A LOT (Amazon Prime)
Voto 8
L’EMPATIA IMPOSSIBILE
Il mondo della truffa e della malavita descritto in “I Care a Lot” assomiglia a una partita di poker dove i giocatori più scaltri non cercano solamente di accaparrarsi il piatto, ma vogliono conquistare il potere, ostentarlo, e surclassare l’avversario. E più la posta in gioco si alza, più aumentano i bluff e i trucchi. Perché al tavolo di “I Care a Lot” non ci sono solamente i polli, ma è un tavolo a cui hanno libero e legalizzato accesso anche i bari.
I polli sono i pazienti e i loro familiari, raggirati dall’austera e immorale Marla Grayson, una ‘bitch’ in piena regola, il baro che conosce ogni anfratto della giurisprudenza, ogni anomalia del sistema burocratico e li usa a proprio vantaggio per diventare la tutrice legale di persone anziane e costringerle al ricovero a lunghissima degenza con l’obiettivo di spolparle di ogni loro avere, grazie alla complicità del personale medico di cliniche corrotte, oltre alla connivenza di giudici poco intuitivi.
Fino a quando Marla non seleziona la vittima sbagliata e imprigiona nella casa di cura la madre di un gangster mafioso russo. Invece di passare la mano buttando le carte truccate, la donna accetta la sfida contro dei rivali forastici che hanno una genuina familiarità con torture e omicidi. La leonessa, come si definisce lei stessa, non molla la preda ma ribatte colpo su colpo, sfoggiando un’improntitudine tenace.
Marla costituisce il centro gravitazionale del film, e Rosamund Pike, praticamente perfetta nel ruolo di persona insolente, bugiarda e priva di ogni etica, ha vinto il Golden Globe come miglior attrice protagonista per la categoria commedia o musical. Un girone a cui il film non appartiene pienamente, a meno che non vogliamo servirci di un’evidente forzatura. Sicuramente almeno la parola ‘black’ andrebbe accostata alla parola comedy, e comunque, anche così, colpiremmo il bersaglio un po’ di sbieco, in quanto “I Care a Lot” è anche un action e un thriller con intarsi grotteschi. Soprattutto è un film che non ha l’impellenza di essere catalogato, essendo la sua peculiarità un’altra, cioè quella di rendere problematica l’empatia con la protagonista.
E quindi una delle basi della commedia, per definizione, crolla sotto la stronzaggine oggettiva di Marla Grayson. Anche quando entrano in campo gli scagnozzi del temibile boss interpretato da Peter Dinklage, diventa difficile tifare per una criminale insopportabile che inganna gli anziani, sebbene abbia tutte le scartoffie in regola. Non c‘è margine di immedesimazione persino nel momento in cui i suoi rivali sono dei sanguinari assassini.
Marla Grayson è un personaggio estremamente negativo e sgradevole da cui non trapelano tratti caratteriali accomodanti; è una glaciale megalomane manipolatrice che non ammette identificazione. Non ha nemmeno il fascino furfantesco dell’antieroina romantica. Marla è il simbolo di uno sconfinamento sociale su cui l’occhio del regista e sceneggiatore si concentra con malizia: la degenerazione della rivincita femminista nei confronti del nemico sbagliato. Marla Grayson non pretende l’uguaglianza, vuole invece soverchiare i deboli, usando l’arma dell’avidità capitalistica (che sarebbe il nemico giusto…) per inseguire il sogno più inflazionato che ci sia: la ricchezza con ogni mezzo, che a sua volta vuole essere conseguita a partire da un’idea imprenditoriale granitica e per questo, nella sua mente da mitomane, giustificabile a prescindere. Con spargimento di sangue (morale) annesso. Gli affari sono affari. Punto e basta.
Come sfida ulteriore, tanto per rendere il tutto un po’ più disturbante, Marla è anche lesbica, per cui appartenente alla lista di quei personaggi tutelati dal politicamente corretto, ben messi a fuoco all’interno di una roccaforte inespugnabile in cui il ponte levatoio è un diluvio di hashtag indignati.
La visione di “I Care a Lot” è a tratti piacevolmente opprimente se avete un debole per il cinismo, e gli unici spiragli di ironia provengono dalla goffaggine degli scagnozzi russi, dipinti come farebbero i fratelli Coen, intingendo cioè la punta del pennello nel tragicomico. Ma sono gli stessi astuti espedienti del mestiere che si trovano anche negli horror: inserire scene e personaggi che rendano respirabile un’aria che rischia di diventare troppo oppressiva.
(ATTENZIONE SPOILER)
Rimanendo in scia con quanto già scritto, il finale del film è un cerchio che si chiude, proprio come in tante pellicole dei fratelli Coen. L’acclamata manager che ha stretto un patto con la malavita, moltiplicando su scala mondiale la sua start-up disonesta e illegale, viene punita da un personaggio marginale. Un uomo di cui ci si era dimenticati, trascurato fino a quel punto dalla narrazione; il tipico individuo periferico del tessuto sociale, perché appartiene a un raggruppamento che non fa né soldi, né audience. Né solletica il diritto di cronaca. Il suo riscatto da loser vendicativo dura il tempo di uno sparo e di un tintinnare di manette.
L’epilogo ha un po’ il sapore della consuetudine narrativa, ma è un happy ending (per modo di dire) doveroso e coerente. Così come nelle commedie romantiche classiche i due innamorati si baciano in dissolvenza seguendo le direttive del genere, qui il personaggio secondario, vessato nel primo atto, sbuca nel terzo e chiude i conti della tragedia. Non è tanto l’azione compiuta ad essere rilevante, ma l’identità di chi la compie. Il fatto cioè che si tratti di un maschio, eterosessuale, bianco, non benestante, bruttino e senza santi in Paradiso, né avvocati di grido a salvargli il culo in tribunale lo colloca al posto giusto nel momento giusto. E nel millennio giusto.