IL BAR DELLE GRANDI SPERANZE                                              VOTO 6.5

(Amazon Prime)

 

Un film per amico

 

GEORGE CLOONEY ADATTA L’AUTOBIOGRAFIA DI J.R. MOEHRINGER E CONFEZIONA UN RACCONTO DI FORMAZIONE A REGOLA D’ARTE, ISPIRANDOSI E NASCONDENDOSI DIETRO LA COMPATTEZZA DI UN CINEMA CLASSICO PRIVO DI AZZARDI. UNA STORIA RACCONTATA COME IN UN LIBRO DI TESTO E CON UN CAST DAVVERO SCINTILLANTE SU CUI SPICCA BEN AFFLECK.

Ogni racconto di formazione è un viaggio percettivo a ritroso, alla ricerca del tempo perduto e degli imprinting che ci hanno forgiato. La condizione sufficiente deve essere la riconoscibilità di rituali e luoghi deputati, che almeno facciano parte del nostro immaginario, senza che essi debbano necessariamente essere stati vissuti in prima persona. Sta a noi cogliere somiglianze e sfumature, parentele umorali e ricordi interscambiabili con ciò che siamo impegnati a guardare.

“Il bar delle grandi speranze” è il titolo che i distributori italiani hanno scelto per “The Tender Bar”, approfittando quindi del nome del locale – The Dickens – al centro della storia, per citare l’omonimo romanzo dello scrittore ottocentesco inglese, pietra angolare della letteratura di formazione, mentre il titolo originale rispetta quello che appare sulla copertina dell’omonima autobiografia del giornalista americano J.R. Moehringer, che George Clooney ha scelto di trasformare in film con la collaborazione dello screenwriter William Monahan, vincitore anni fa dell’Oscar per la sceneggiatura non originale di “The Departed”.

Dalla primissima infanzia (in cui JR è interpretato da Daniel Ranieri) fino alla maturazione definitiva (la versione adulta di JR la prende in consegna Tye Sheridan) seguiamo il percorso a tappe ben prestabilite del protagonista, ossessionato da un padre assente: un deejay di cui ascolta esclusivamente, per anni, la voce alla radio. L’unico suo contatto assiduo con la figura genitoriale. JR è un bambino con lo sguardo trafitto dalla curiosità e collocato/coccolato da una famiglia composta da una madre disillusa ma grintosa (Lily Rabe), da un nonno scorbutico ma adorabile (Christopher Lloyd) e soprattutto dallo zio Charlie (un Ben Affleck davvero notevole) che è per lui il dispensatore di consigli, incoraggiamenti, e lapidarie lezioni di vita. Poche dritte ma di granito. Una manciata di postulati ma irrinunciabili. L’ovatta familiare si estende umanamente fino al bar del titolo, con i soliti avventori strambi ma dal cuore d’oro che adottano il piccolo JR e viceversa. In quel bar, JR torna più volte, a fare il resoconto delle sue scorribande nel mondo esterno. Prima, durante e dopo la frequentazione del college, successivamente per celebrare la sua assunzione (solo da fattorino) al New York Times e per scaraventare finalmente nella discarica dei cuori infranti e indifferenziati la love story a senso unico con la bella, aristocratica e altezzosa Sidney. E dal bar partirà, a bordo della decappottabile dello zio, sulle note di “Do It Again” degli Steely Dan, verso una vita che si annuncia copiosa di esperienze. Il film di Clooney si apre e si chiude a bordo di una macchina, perché non poteva di certo mancare l’afflato da road movie nella rassicurante e impeccabile linearità di un film che forse ha la sola colpa di seguire pedissequamente il romanzo autobiografico di partenza. Se fosse, infatti, una storia scritta direttamente per lo schermo, ci troveremmo qui a dibattere della necessità di una produzione del genere. Una volta invece che si accetta il libro di Moehringer come punto di partenza, l’operazione di Clooney e Monahan comincia ad avere maggior senso. Ci mettiamo in mezzo anche il navigato produttore Grant Haslov, che con Clooney e Affleck aveva prodotto anche “Argo”. Il team è amalgamato e si vede.

La loro scelta si snoda con chiarezza ed è quella di un cinema aggrappato saldamente a temi e luoghi collaudati e vincenti per lasciare allo spettatore il resto del lavoro. La storia prima di tutto. Come trovare l’assassino in un noir, ma qui gli indizi da radunare servono più a rintracciare noi stessi, ad avvitarsi nella nostalgia di un passato già scritto da riattivare, come quando si apre un cassetto con dentro un sogno che ancora può essere realizzato. E nell’esaltazione, nostalgica a priori, di un tempo ancora da scrivere. Un’ideale pagina bianca che si staglia all’orizzonte mentre, liberi da turbamenti, si viaggia su un’interminabile striscia d’asfalto. Sky Is The Limit. Sono lontanissimi per Clooney, i tempi di “Confessione di una mente pericolosa” e di “Goodnight and Good Luck”. Con questo film a rischio zero, Clooney si adagia nel calore del cinema classico, ne replica il battito e il respiro. Senza affanni né aritmie. Con la perizia del regista mestierante che sa come rendersi invisibile, sa come farsi da parte per lasciare il proscenio alla storia. La storia è tutto.

Tutto scorre liscio come su una pista da bowling, altro luogo deputato per l’uscita goliardica con gli amici del bar che segna per il piccolo JR un’altra incursione nel mondo degli adulti. Perfino le immagini pastose e sgranate di una giornata in spiaggia, che corredano i titoli di coda, ripetono per accumulo il significato denotativo del film. Bisogna uccidere il padre maligno, ma solamente a conclusione di un faticoso e irrinunciabile percorso in salita, per essere finalmente liberi e indipendenti. Liberi dalla famiglia intesa in modo strettamente tradizionale e anche dalla coppia. Il personaggio più carismatico è lo zio Charlie: veterano della vita ma senza essere accademico, scafato e risolto, ma senza essere un santino da appendere al muro, Charlie (che non è lo zio che tutti vorremmo avere. Charlie è l’uomo che molti vorrebbero essere) è uno scapolo che non ha bisogno di una donna al suo fianco. È il mastice che tiene incollata la famiglia e la colonna portante del bar, cioè di un’altra famiglia. La sua forma mentis è inscalfibile e con l’abbraccio della sua figura paterna non certificata da una chiesa, un municipio o un tribunale, abbraccia e – ovunque – protegge. Allo stesso modo, la madre di JR, liberatasi dall’orco domestico, si ricostruisce faticosamente come madre single, trova un lavoro e si gode il figlio laureato a Yale. E JR, finalmente svincolato dall’amore non corrisposto per Sidney, può spiegare le sue ali verso i grattacieli di Manhattan, verso la frontiera. Qualsiasi essa sia. In America una frontiera la trovi anche al minimarket.

Pregevole ma consolatorio, gratificante ma compilativo e a volte ridondante nell’uso della voce off, “Il bar delle grandi speranze” è un’educazione sentimentale senza laceranti deviazioni di percorso. E un’educazione all’indipendenza dalle sovrastrutture narrata con distensione e fiducia nel mondo. La parabola prima amara poi dolce, poi amara poi ancora più dolce di un ragazzo che trova nella scrittura la sua chance di libertà. Una bella storia, di quelle di una volta, se ne avete bisogno.

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