Un cerchio che si chiude, con dentro un Leone d’Argento. “Io, Capitano” si ricongiunge idealmente agli esordi minimalisti di Matteo Garrone sul tema dell’immigrazione, “Terra di mezzo” e “Ospiti”. Nel frattempo, però, di acqua sotto i ponti e di pellicola nei proiettori ne è passata a bizzeffe, e il film, premiato per la miglior regia a Venezia, raccoglie e rilancia tutta l’evoluzione artistica e poetica sviluppata dal cineasta romano in 27 anni di carriera e in dieci lungometraggi. Non è solamente una questione di budget, ma di prospettiva. Con “Io, Capitano” – la storia del senegalese Seydou e di suo cugino Moussa, in viaggio verso l’Europa dei balocchi – Garrone si colloca in zona romanzo di formazione, ma da un’angolazione epica, quella di una vera odissea dell’eroe. Tanto che, per affinità, “Io, Capitano”, ha molto da spartire con la precedente opera, la rilettura di “Pinocchio”: sia per le somiglianze metaforiche con lo stratificato capolavoro di Collodi, sia per la consolidata abitudine di Garrone di approdare con agilità dentro lidi fiabeschi e oscuri pur a partire da un plot adiacente alla realtà, senza però farsi attirare da propositi documentaristici. Una traversata epica e infernale di un ragazzo che diventa adulto in corso d’opera, fra lo sgomento del deserto del Sahara, la crudeltà delle prigioni libiche e l’affaccio sull’infinito, nel mezzo di un Mediterraneo sconfinato, che sia questo ingoiato dal buio della notte o abbacinato dal sole di mezzogiorno. “Io, Capitano” è il film italiano candidato per la corsa agli Oscar 2024 per il miglior film internazionale: la prima volta per Garrone, la cui filmografia vi invitiamo a riscoprire, a partire dai seguenti suggerimenti di visione.

L’IMBALSAMATORE

(Sky, Now)

Matteo Garrone attinge alla cronaca nera, al Caso Semeraro, conosciuto anche come l’omicidio del nano di Termini: l’uccisione di un tassidermista omosessuale avvenuto nella Capitale nel 1990. Ma è solamente un’ispirazione, tanto che l’azione del film è ambientata altrove, fra il litorale casertano e i caliginosi paesaggi lombardi. Il fatto vero serve a Garrone come un punto di partenza per introdurre la sua estetica personale: un occhio iperrealista e fiabesco che guarda alla tragedia maiuscola, ma rimane ancorato alla sporcizia del suolo paludoso, alla descrizione di un ambiente sociale suburbano e fatiscente, dove vagabonda un’umanità di scarto. Tra Fassbinder e Pasolini, si è detto, ma ormai è lo stesso Garrone ad essere diventato cineasta da paragone. “L’imbalsamatore” è la storia di una donna che incrina l’ambiguo rapporto fra un tassidermista nano affiliato alla camorra – un tipo miserabile e al contempo magnetico – e il suo giovane apprendista, oggetto di un tossico desiderio. Quando il ragazzo si innamora della nuova arrivata, la vita diventa troppo aspra e angusta per tutti e tre, attesi da un epilogo fatale. A oltre 20 anni dalla sua realizzazione, possiamo ripensare a questo crime, segnato da immagini pulsanti e contrastate che immortalano esterni brumosi e interni stranianti, come a una vera iniziazione, al trampolino di lancio di un grande autore.

PRIMO AMORE

(Amazon, Now)

Una storia di prevaricazione, prigionia e annientamento. Un orafo, ossessionato dalla magrezza femminile, convince una ragazza conosciuta a un appuntamento al buio a sottoporsi a una drastica dieta che la trasforma in uno scheletro vivente. Nella penombra di una casupola di montagna dalle parti della provincia veneta va in scena un rapporto malato tra un manipolatore e una vittima troppo ubbidiente. Una coppia che si arrocca dietro un principio di privazione a oltranza. Garrone si ispira liberamente al romanzo “Il cacciatore di anoressiche” di Marco Mariolini e tiene a battesimo l’esordiente Vitaliano Trevisan, al fianco di Michela Cescon. Premiata a Berlino e con il David di Donatello, la colonna sonora di Banda Osiris.

GOMORRA

(Netflix, Sky, Now)

Premio speciale della Giuria a Cannes. Il regno delle tenebre dentro i confini di un mafia-movie che prende spunto dall’omonimo bestseller di Roberto Saviano per infilare il bisturi nel Sistema, nel corpo della camorra, mostrando ciò che lo tiene in vita: le minuscole e crudeli prassi a cui si presta la nutrita manovalanza fatta di burocrati, affiliati, ragazzini assassini, esecutori inflessibili. Operai del crimine, delinquenti da pozzanghera, che vivono negli scantinati o dentro templi di cemento che sono simili ad alveari, dove sognano di diventare gangster come il Tony Montana di “Scarface”. Un mosaico di storie senza gerarchia di azioni, personaggi o volti. Garrone filma un safari nel buio pesto della violenza, illuminata da bagliori di mitra che uccidono a bruciapelo.

DOGMAN

(Raiplay)

Ispirato al celebre ‘Delitto del Canaro’, un episodio di cronaca nera avvenuto alla periferia di Roma negli anni 80. Un mite toelettatore di cani reagisce con brutale efferatezza ai soprusi di un ex pugile che terrorizza lui e tutto il quartiere. Il sottomesso si trasforma in aguzzino, l’inoffensivo schiacciato come un insetto che si ribella alla sudditanza contro il gigante imponente, infliggendo al vessatore una serie di indicibili torture prima di ucciderlo senza pietà. Un revenge-movie a tutti gli effetti ma senza alcuna romanticizzazione di sorta, né moralismi. Garrone indaga dentro i territori e le gabbie dell’istinto, lavorando abilmente sugli spazi, la luce, i volumi. E trova in Marcello Fonte (premiato a Cannes) ed Edoardo Pesce i corpi perfetti che ospitano impulsi e reazioni primordiali.

IL RACCONTO DEI RACCONTI

(Sky, Now, Raiplay)

Un matrimonio che si doveva fare: quello tra “Lo cunto de li cunti” –  l’antico libro scritto da Giambattista Basile nel 1600 – e la visione favolistica e grottesca più volte lasciata intravedere da Matteo Garrone. Che adatta tre delle 50 fiabe scritte in dialetto napoletano da Basile, considerato il primo scrittore italiano ad usare la novella intrisa di elementi fantastici come forma di espressione popolare. In una mega produzione internazionale (ci sono anche Vincent Cassel, Salma Hayek e John C. Reilly – ma il film è stato interamente girato in Italia), Garrone sprigiona tutta la sua libertà creativa, esalta il suo smagliante stile pittorico, regalandoci un carnevale fantasy dalla struttura narrativa circolare che contiene significative riflessioni sulla natura umana, vittima delle proprie ossessioni e delle proprie spregevolezze. Mentre in un trionfo di invenzioni visive facciamo incursione in un cruento mondo di sovrani dissoluti, regine, principesse, saltimbanchi e orchi, negromanti e draghi, sortilegi, magie e vecchie raggrinzite. Si mangiano cuori e si ingrassano insetti. Un film debordante e sfarzoso in cui il farsesco sfuma nel macabro, e con cui Garrone sconfina definitivamente nel fantastico pur mantenendo intatti alcuni tra gli elementi ricorrenti nel suo cinema più misurato. Come l’accecante brama di potere, i personaggi ossessionati dai loro desideri di superbia, la messa in scena di corpi destinati alla metamorfosi o al calvario.

PINOCCHIO

(Now)

 

Dopo Basile, la rilettura della favola italiana per antonomasia era l’inevitabile approdo della poetica di Matteo Garrone. Una sfida più delicata perché a differenza dei personaggi di Basile, quelli inventati da Collodi sono degli archetipi sacri, colonne portanti della cultura italiana, universale: la materia di cui sono fatti tanti nostri sogni (e paure e molto altro: ogni incontro con il capolavoro di Collodi può farci inabissare fino a raggiungere profondità sconosciute). Garrone segue con fedeltà il testo (ha scritto la sceneggiatura insieme a Massimo Ceccherini, che interpreta la Volpe) accentua il contesto umile e contadino, si aggrappa al desiderio di Geppetto (Roberto Benigni), uomo malconcio e affamato che riversa tutto il suo bisogno d’amore su un pezzo di legno. È la prospettiva dal basso della miseria, su cui Garrone allestisce un mondo incantato, ma dalle tinte livide, a fare di questo film un quadro realista, surreale e decadente. Guardando il film ci si accorge ancora una volta della duttilità estrema di una fiaba immortale, in cui ogni adattamento è già di per sé un esperimento, una metamorfosi, dove le strade e i personaggi secondari sono poli d’attrazione che possono prendersi la scena. Spicca la volontà di mostrare un’estetica artigianale, andando controcorrente in un mondo del cinema in cui gli effetti visivi sono dominati dal digitale. Mentre qui il trucco c’è e si vede. Il legno, il fuoco, la carta, gli stracci, le monete del campo dei miracoli, si sentono, si toccano, si respirano. Come del resto si avverte tutta la sostanza del cinema di Garrone.

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