L’ULTIMO FILM DI JANE CAMPION, CANDIDATO A 7 GOLDEN GLOBE, E’ UN ELOGIO DELLA LENTEZZA CHE PUO’ NON ATTRARRE: DI SEGUITO ALCUNI MOTIVI PER GUARDARLO, IN UNA RECENSIONE CHE NON SVELA IL FINALE

Se siete di quelli che inquadrano i film secondo il loro grado di ‘velocità’, non guardate su Netflix l’ultimo di Jane Campion, Il potere del cane, che come cifra stilistica ha una lentezza assoluta, ipnotizzante e portata con coerenza a diventare paralizzante.

La regista neozelandese, una delle pochissime cineaste donne da Oscar (leggete qui), torna a 10 anni dal suo ultimo film con una storia adattata ma molto cambiata del romanzo del 1967 di John Savage, un western ambientato nel Montana dei primi del Novecento.
Un western senza sparatorie ma con classici proprietari terrieri, cappellacci da cowboy, scenari pazzescamente belli (è la Nuova Zelanda patria della regista che qui ‘interpreta’ il polveroso Montana), spostamenti di bestiame e molti lazos fatti con la pelle dei bovini.
Phil Burbank (un Benedict Cumberatch che gestisce la sua espressività come un samurai, rallentandola fino a lasciare tutta la responsabilità dell’interpretazione ai suoi gelidi occhi azzurri) introverso e rancoroso fino bel oltre i limiti della crudeltà, gestisce insieme al mite, gentile e infinitamente più pulito fratello George (Jesse Plemons) il ranch più grande della zona. Il misteriosamente complicato rapporto tra i due fratelli, diversissimi tra loro, si deteriora in modo grave quando il generoso George si innamora e sposa Rose (una coraggiosa Kirsten Dunst che deve rinunciare lentamente ma inesorabilmente alla sua bellezza in favore di un credibile disfacimento), donna matura che gestisce un ristorante in mezzo al niente, vedova e con un figlio giovinetto. Phil non solo è morbosamente geloso del fratello, ma detesta la nuova cognata e, apparentemente per conclamata omofobia, ancora di più quel suo figliolo timido ed effeminato (Kodi Smit-McPhee). La convivenza dei cognati è tempestosa: quasi senza agire, Phil rende comunque impossibile la vita a Rose, con una cattiveria composta e silenziosa, e la donna, silenziosamente e compostamente, inizia a crollare, distruggendo la parvenza di felicità che quel ricco matrimonio aveva portato nella sua vita sfortunata. L’arrivo del giovane Peter, in vacanza dall’università, complica ulteriormente le cose: il ragazzo capisce che la madre soffre in modo indicibile, e forse immagina di esserne in parte responsabile, perché magari sono i suoi costosi studi di aspirante chirurgo la molla che ha spinto la madre a quel ricco matrimonio. L’atteggiamento odioso e crudele di Phil subito si rivolge anche verso il ragazzo, che però riesce in qualche modo a interessare il rancoroso cowboy, e i due iniziano improvvisamente (inaspettatamente?) a legare. Lunghe cavalcate, insegnamenti su bovini corde e coltelli che vengono impartiti, una non più latente attrazione del grande verso il giovane che spiega l’iniziale accanimento… La presenza del ragazzo chiarisce qualcosa del passato di Phil, del suo rapporto col defunto ‘maestro’ Broncho Bill, delle motivazioni del suo evidente odio per la vita nella sua interezza e per i rapporti umani in particolare.

Tutto questo non va immaginato come azione. Solo come lento avanzamento di una trama immersa negli scenari desolati delle montagne, di pochissime parole e parchi gesti in una casa sperduta nel nulla, di sguardi e risate isteriche di raggelante disagio esistenziale. L’uomo in mezzo a questo niente sembra passare da una irredimibile cattiveria a una fievolissima luce di speranza. La donna invece affonda sempre di più nell’incubo della paura, del dolore e dell’alcolismo. Il ragazzo nel mezzo, anche lui apparentemente quasi immobile, come un personaggio del teatro sempre vestito uguale, e sempre di pochissime insignificanti parole.

MA.
Ma c’è un ma. C’è a un certo punto un gigantesco ma, un rivolgimento della trama che noi abbiamo deciso di non rivelare qui, ma senza il quale la recensione di questo film sarebbe diversa. C’è un cambiamento, un fatto (finalmente…) che illumina retrospettivamente tutta la storia, un’azione senza la quale questo film sarebbe solo un grande film lentissimo sul disagio che un uomo crudele può provocare in una donna senza nemmeno sfiorarla, senza nemmeno rivolgerle mai la parola. Un affresco sulle potenzialità della cattiveria umana, e un affresco realizzato in modo eccezionale, con la mano straordinaria della regista di Lezioni di piano, un film che personalmente riteniamo tra le più belle storie d’amore e di descrizione di personaggi di sempre.

L’INTERPRETAZIONE A CARICO DEL DESTINATARIO: PERCHE’ GUARDARE “IL POTERE DEL CANE”
Qui però c’è altro, e di più. Il film ha una svolta quasi da thriller, un twist mystery in un film per altro lirico e psicologico. Un capovolgimento che porta a capire che, mentre sembrava che non succedesse niente, stava accadendo tutto, e una trama sottile e inesorabile veniva tessuta da uno dei personaggi.
Il lato negativo: come tutti i film con finale inatteso (che cambia il senso di quello che si è visto fino a quel momento), anche questo non lo rivedrete mai più. Di rado si torna sul luogo in cui ci è stato inflitto un inganno, e non è mai necessario rivedere i momenti che ci hanno confuso, perché la mente li ha già visti alla luce dell’illuminazione finale.
Il lato positivo: per ‘capire’ quello che stava succedendo mentre non succedeva niente, lo spettatore deve impegnarsi, metterci la testa, decodificare tutti i simboli e gli indizi disseminati nella sterminata assenza di azione della storia, per cui la lentezza del film è ‘ripagata’, non solo dalla sua bellezza, ma dalla consapevolezza che nascondeva un mondo sommerso di segni che lo rendono immobile sì, ma frenetico sotto la superficie.

Torniamo quindi al nostro incipit: non guardate questo film se il vostro genere è l’azione o i grandi dialoghi memorabili. Ma se apprezzate la lentezza come valore estetico, e se siete disposti a concentrarvi su di essa fino alla fine, non solo avrete visto un grande film, ma vi sentirete più intelligenti di prima, e di tutti quelli che non hanno accettato la sfida di stare a fissare infinitamente un tizio incarognito che fissa l’infinito.

p.s. per i nostri lettori più attenti: il ‘potere del cane’ è una citazione biblica che deve essere, anche questa, decodificata dallo spettatore.

Lascia un commento