SU NETFLIX “IL PRINCIPE”, DOCUSERIE CON SORPRESA SUI GUAI GIUDIZIARI E LO SCOMBICCHERATO DESTINO DI VITTORIO EMANUELE DI SAVOIA, IL RE CHE NON FU MAI

“The King Who Never Was”: il titolo internazionale del documentario su Vittorio Emanuele di Savoia è più evocativo e preciso del semplice ‘il Principe’ di quello italiano: il nodo focale attorno a cui ha girato la vita di quest’uomo ora ottantenne è precisamente il fatto che era nato per essere qualcosa che invece non esisteva più, un Re d’Italia.
Forse privo di talenti e apparentemente non dotato di profonda intelligenza, Vittorio Emanuele merita una certa comprensione per questo: immaginiamoci lo sgomento di noi da bambini a non ritrovare il nostro posto a tavola, il nostro letto, il banco a scuola. Lui è cresciuto invece direttamente senza un ruolo, anzi senza un’identità, quella reale, negata e priori e per sempre; non solo, esiliato da tavola letto e banco di scuola, ovvero impedito dalla legge di tornare a casa sua. Roba da far crollare strutture emotive ben più solide di quella del figlio dell’ultimo Re d’Italia, un uomo di cui non si conoscono particolari qualità né famoso per la forza di carattere.

Comprensione o no, bisogna ammettere che se uno non è nostalgico monarchico (sì, ce ne sono), non si vede il motivo per cui dovrebbe interessarsi alle tre puntate che raccontano la storia di come il re che non fu mai (quindi una persona qualsiasi) nel 1978 fu accusato di aver ucciso con un colpo di fucile un diciannovenne nelle acque dell’Isola francese di Cavallo (pronuncia Cavallò).
La vicenda, effettivamente abbastanza grottesca, è comunque nelle sue linee essenziali  più o meno nota a chi sia nato il secolo scorso: Vittorio Emanuele Savoia fu processato per l’omicidio colposo del diciannovenne Dirk Hamer e assurdamente assolto dalla giustizia francese, che non riconobbe nello sparo il motivo della morte del ragazzo (a cui un proiettile recise l’arteria femorale uccidendolo dopo diversi mesi di agonia), lasciando quindi invendicato un giovane stroncato come se la causa della morte fosse stata un ghiribizzo del destino, devastata una famiglia intera che non si è mai ripresa, e attonita una nazione, la nostra, che per una volta unitariamente si sarà detta evviva la democrazia e lo scampato pericolo di essere eventualmente sudditi di tale soggetto. Vittorio Emanuele infatti la sera del ferimento del ragazzo fu visto e sentito sparare, per rabbia e avvertimento dato che dei giovani gitanti avevano usato il suo gommone (più futili motivi di questi non se ne sentirono mai), ma si è sempre dichiarato innocente tirando fuori non si sa quale altra arma da fuoco che avrebbe sparato in contemporanea con il suo fucile.
Cosa aggiunge questo documentario a una storia ben conclusa e abbastanza conosciuta? Quale il motivo per guardarlo, oltre al punto di vista (anche questo noto) del re, pardon, dell’assassino, scusate volevo dire dello sparatore notturno inconsapevolmente mortale?

BEATRICE BORROMEO CASIRAGHI: UN DOCUMENTARIO CON LA ERRE MOSCIA
Quello che stupisce e incuriosisce è l’identità dell’autrice e regista della serie, Beatrice Borromeo Casiraghi. La giovane italiana di nobili origini, rampolla dei conti Borromeo da una parte e dei conti Marzotto per parte di madre, è un ex modella e giornalista (ha lavorato in televisione con Michele Santoro conducendo diverse inchieste), che aveva apparentemente abbandonato la carriera per sposare Pierre Casiraghi, secondogenito di Carolina di Monaco, figlia del Principe Ranieri e di Grace Kelly.
Sono sicura che anche chi non mastichi di genealogie e di gossip di case reali mi possa seguire: le foto del glamourosissimo matrimonio Borromeo-Casiraghi qualche hanno fa hanno invaso anche i quotidiani più paludati.
Un barlume di interesse dunque si risveglia: come mai una rappresentante di questo ceto fantasmatico, i nobili in un paese in cui la nobiltà non c’è più, decide di affrontare questa vecchia storia andando in Svizzera a intervistare l’anziano e bolso non-re d’Italia? Vorrà forse difendere la categoria? Parlare degli antenati rovistando tra cardinali e sovrani (i Borromeo hanno dei santi in casa, la dinastia Savoia è tra le più antiche di Europa, con il capostipite Biancamano nato nell’undicesimo secolo NdA)?
Proprio per niente, anzi, il contrario. Beatrice Borromeo confeziona un’inchiesta seria, severa e, nonostante la documentazione rigorosissima, quasi schierata nel giudizio negativo nei confronti del principe. Infatti la bellissima Beatrice, anche se non si vede e non si sente mai nel rispetto di un giornalismo asettico di stampo british, orienta il suo racconto mettendo in evidenza tutte le manchevolezze dell’anziano Savoia, dipingendo un ritratto volutamente impietoso e mostrando un uomo non solo fragile, ma sostanzialmente incapace di intendere e volere. Basterebbe la prima inquadratura, con lo sguardo fisso e un po’ bovino, a far capire come Beatrice vede e vuol far vedere Vittorio Emanuele, e la sua scelta di lasciare nel filmato quella strana latenza che rimane tra la domanda e la risposta a suggerire un leggero deficit di comprensione dell’intervistato. Questa ‘cattiveria’ della giornalista ha motivi personali: la madre di Beatrice Borromeo è Paola Marzotto (figlia di Marta, giuro ora basta con le genealogie), una delle migliori amiche di Birgit Hamer, sorella del ragazzo non-ucciso dalla non-pallottola del non-re. Ho la vostra attenzione, ora?


Il documentario ricostruisce il calvario trentennale di Birgit alla ricerca di giustizia, un itinerario doloroso fatto di scoperte, rancori, delusioni e sofferenze in cui la sorella della vittima ha tentato di mettere il colpevole di fonte alle sue responsabilità, almeno morali. E la regista ha respirato questa storia sin da bambina, conoscendone ogni tappa e ogni passaggio, e addirittura è stata l’autrice dello scoop (per “Il Fatto Quotidiano”) che svelava come Vittorio Emanuele avesse ammesso pubblicamente di aver ‘fregato’ la giustizia francese. Dunque un’inchiesta, quella realizzata per Netflix, che si rivela molto interessante anche se di parte: parte giusta, sembrerebbe comunque dopo averlo visto.
La domanda ora diventa: come ha fatto il Savoia ad accettare questa lunga intervista da cui esce onestamente malissimo, facendo rabbia e al massimo a volte pena? Come ha fatto a fidarsi della giovane donna che palesemente voleva metterlo un’altra volta alla sbarra (e che lo ‘incastra’ con un delirante succulento fuori onda)? E come ha fatto Emanuele Filiberto, il figlio erede di una corona che non esiste più da settant’anni, a collaborare a questa operazione di affossamento?
Consigliamo in ogni caso di guardare il documentario, che riporta alla vita una storia che ha molti significati universali, che riflette sul privilegio e sull’impunità dei potenti, sulla crudeltà del caso e sul diverso peso che ha il senso di colpa a seconda del cuore che la natura ti ha donato.

Alla fine quello che rimane dopo la visione è lo sgomento per quella strana fissità nello sguardo di un uomo che ha distrutto una vita senza rovinarsi la sua, per un’assenza di coscienza e moralità quasi infantili, che fanno pensare a quello che sarebbe potuto essere, di questo paese, se non ci fossero stati quei due milioni di voti in più a favore della democrazia al referendum nel 1946. Voti, stando a Emanuele Filiberto, ‘raccolti non si sa dove’: una botta di fortuna, Altezza, una botta di fortuna…

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