UN FATTO: LA VERA STORIA

1968. Un giovane laureato appena diventato ufficialmente ingegnere decide di applicare le proprie conoscenze tecniche alla sua visionaria sete di libertà condita con una pacifica tendenza all’anarchia, e insieme a un amico costruisce una piattaforma nel mare davanti alla spiaggia di Rimini. Una piattaforma la cui base è su un fondale a 6 miglia e mezzo dalla riva, quindi non in acque italiane. Quindi in acque extraterritoriali, quindi… libera e indipendente. Il sogno è quello: creare un altrove libero dal sistema, dalle regole, dalle costrizioni degli istituti statali e governativi. Un sogno totalmente in linea con le aspirazioni di libertà e autonomia che stavano caratterizzando i movimenti giovanili di tutto il mondo in quegli anni. Il vero ingegner Giorgio Rosa creò effettivamente dal nulla un’isola artificiale in mezzo al mare, e mentre questa si popolava dei personaggi più diversi, la sua visione prese forma: farne un vero e proprio micro-stato indipendente. Rosa arrivò a rivolgersi all’Onu prima e poi al Consiglio d’Europa (che si occupava di promuovere le identità culturali dei paesi europei) per avere riconosciuto lo ‘stato di stato’, tuffandosi nell’inevitabile contraddizione di ricorrere al sistema per ufficializzare la sua uscita dal sistema. Mentre a Strasburgo la perplessità paralizzava per un attimo la burocrazia, il Governo italiano carpiva la contraddizione e, per non essere a sua volta smentito come entità sovrana, arrivava a distruggere fisicamente quel sogno in mezzo al mare. Con la più potente delle contraeree disponibili al momento, la Repubblica Italiana attaccò la sedicente Isola delle Rose, realizzando la sua prima e finora unica ‘guerra di aggressione’ dopo la Seconda Guerra Mondiale. Questa è la storia vera di Giorgio Rosa e della sua avventura, e questa è la trama del L’incredibile storia dell’Isola delle Rose, ‘esperimento’ narrativo targato Netflix Italia.

LA LIBERTA’ DI RACCONTARE LA LIBERTA’

Quello che colpisce, guardando questa favola che è un’allegoria ma ‘incredibilmente’ anche una vicenda realmente accaduta, è che non si capisce a chi è rivolta. Non è chiaro quale sia il target preciso di questa operazione, diretta dall’enfant prodige della commedia italiana, Sydney Sibilia, autore della ‘saga’ di successo comico Smetto quando voglio.
Girato come una commedia in costume, il film ha un’estetica e uno stile scenico e sonoro molto pop, che dipingono di colori vivaci il fondale dello scenario anni ’60. Ma in realtà è il racconto serio di un’utopia, nerbo e senso di tutte le azioni rivoluzionarie del ’68, anche quelle non violente. Anche se i personaggi sono sbozzati leggermente, con i loro tic da maschere della commedia dell’arte (il genio incompreso, l’amico ubriacone, il disertore della guerra, il papà gravato dal peso delle responsabilità, i politici cialtroni e macchiettistici), i riferimenti sono quelli della storia d’Italia di quegli anni, che risultano per esempio incomprensibili ai giovani, ai quali sembrerebbe invece rivolto questo ammiccamento comico. Chi è il presidente che viene chiamato solo col nome di battesimo Giovanni, chi sono i ministri che dicono di aver fatto l’Italia scrivendone la ‘carta’, come mai la storia di una discoteca in mezzo al mare si alimenta con l’aspirazione alla libertà anarchica, e finisce nel santuario della burocrazia istituzionalizzata che era il Consiglio d’Europa?


I giovani possono capire questi riferimenti, loro che non hanno vissuto e ancora studiato quegli anni di contraddittorio fenomenale fermento? D’altra parte, quelli che ‘hanno fatto’ il Sessantotto, o che sono nati in quegli anni, cosa hanno da imparare da una storia piccola piccola e lieve come una piuma?
Ebbene, è proprio questo il bello dell’Incredibile storia dell’Isola delle Rose.
In un momento in cui la creatività è quasi totalmente asservita alla produttività, dove ogni prodotto nasce per un pubblico ben preciso e determinato da algoritmi e meccanismi di ‘neuromarketing’, questa è una storia che, semplicemente voleva essere raccontata.
La più retorica delle idee sulla creatività è anche, ancora, la più bella: la storia di questa folle utopia, vera e fallimentare, aveva una spinta interna ad essere messa in scena. Questo piccolo film a suo modo ipnotico, quindi, piace perché nel suo fondo c’è una necessità creativa intrinseca, che a conti fatti oggi è la cosa più rara da trovare in un prodotto artistico.
Qualità, mestiere, realizzazione: molti prodotti portano con sé questi valori, ma questo film ne ha uno in più. Il film, come l’isola col suo breve momento felice e la sua fine inevitabile, nasce da una spinta che nell’uomo non dovrebbe mai essere del tutto sopita, quella alla libertà.
A chi gli chiede perché, Giorgio Rosa risponde semplicemente di aver costruito la sua isola perché poteva farlo. Così Sydney Sibilia forse ha fatto un film senza pensare a chi si stava rivolgendo, semplicemente perché è capace di farlo e poteva farlo.
Confermando che la creatività è la più estrema, non violenta, meravigliosa libertà concessa all’uomo.

 

IL SENSO DI MATILDA PER IL CINEMA

In questa favola pop con alla base una storia vera, l’interpretazione degli attori non è troppo in primo piano: come detto i personaggi sono delle macchiette, funzionali al racconto, volutamente ritratti in modo leggero, come delle acqueforti in cui non è importante il dettaglio, ma l’impatto visivo d’insieme.
Eppure per ottenere il risultato, la leggerezza e l’impatto, ci sono voluti attori solidi. Come Luca Zingaretti, irriconoscibile ma riconoscibile come il presidente della Repubblica dell’epoca Giovanni Leone, o Fabrizio Bentivoglio, credibilmente minaccioso nei panni di un livoroso Ministro dell’Interno, Franco Restivo. Come, viene da dire ovviamente, Elio Germano, il Robert De Niro nostrano, l’interprete italiano più versatile e mimetico in circolazione oggi (insieme a Pierfrancesco Favino). Elio diventa Giorgio Rosa, e quanto lo stralunato idealismo del vero ingegnere dell’Isola delle Rose sia reso efficacemente lo si può vedere in un fotogramma inserito nei titoli di coda, in cui si vede Rosa uscire dalla chiesa il giorno del proprio matrimonio, e si può cogliere un ammicco sorridente e vagamente ingenuo che, con la solita bravura medianica, Germano ha colto e recuperato sulla propria faccia e nei suoi propri occhi.

Ma chi si attendeva al varco era l’attrice del momento, la bellissima Matilda De Angelis, giovane interprete bolognese balzata, come suol dirsi, agli onori della cronaca per aver interpretato l’amante di Hugh Grant nel celebrato The Undoing. La sua notorietà è continuamente in ascesa, complice l’intelligente pubblicità fatta a una ‘citazione’ sui social da parte di Nicole Kidman: se la divina Kidman ‘tagga’ su Instagram una giovane semisconosciuta collega, per la proprietà transitiva della fama, la giovane collega non sarà più semisconosciuta.
Così noi, dopo averla vista sirena seduttiva e vittima malconcia in The Undoing e in attesa di ritrovarla plausibilmente elegantissima sul palco dell’Ariston (dove co-presenterà una serata del Festival di Sanremo con Amadeus), abbiamo deciso con una punta di malizia di vedere come se la cavava in un ruolo ‘normale’.

E in effetti nell’Incredibile storia dell’Isola delle Rose Matilda ha il ruolo di una donna normale. Anzi. Rappresenta esattamente la normalità: infatti è la ex fidanzata di Giorgio, Gabriella, una seria laureata in legge che lo ha lasciato anni prima proprio a causa delle sue intemperanze e del suo atteggiamento anarchico, e che ora sta per sposare il più classico dei ‘ripieghi’, con tanto di bomboniere tristi e prospettive rasoterra. Quando Giorgio costruisce la sua isola, e lei va a trovarlo, quasi lo distrugge con la realistica osservazione “Ma è una discoteca, una discoteca in mezzo al mare”. Proprio per contraddirla, l’anarchico ingegnere si incaponisce nel voler far riconoscere come stato indipendente l’Isola delle Rose, e prende la scalcagnata vettura che ha costruito da solo (anche quella) per andare a Strasburgo a ufficializzare la sua richiesta. Per dimostrare a Gabriella che quello che svetta nel mare non è una discoteca, ma la piattaforma solida di un sogno realizzato.
E alla fine la normalità di Gabriella viene conquistata dalla follia di Giorgio, nella storia, nel film e soprattutto nella realtà.
Così Matilda De Angelis toglie i panni glamorous di un’amante latina riempita di mortali mazzate a New York, e indossa quelli casti e sobri di una bolognese perbene della fine degli anni Sessanta. Credibile anche perché bolognese lo è davvero, l’attrice è convincente anche in questo tono minore, feriale: castigata nella sua prorompenza seducente, rivela una capacità interpretativa notevole, regalando al personaggio la forza solida della verità, lasciando però trapelare il guizzo ribelle e passionale che la porterà, alla fine, a fare la scelta meno prevedibile e scontata, scegliendo di rimanere in piedi di fronte nientemeno che a un bombardamento da parte della Marina militare del suo Paese.
Notevole in sintesi, che si dimentichi immediatamente la sensuale Helena Alvez, artista schizzata della grande mela, per affezionarsi a questa florida, intelligente e concreta giovane matrona emiliana, disposta per amore a contraddirsi e a tornare sui propri passi.
Se questo è il buongiorno della carriera di attrice, sentiremo ancora parlare di Matilda De Angelis, e speriamo che l’eterno Festival Sanremo non si riveli per lei una tagliola e un passo falso che ‘abbassi’ il suo calibro di interprete al ruolo tutto tristemente italiano di ‘valletta’.

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Se volete vedere Matilda De Angelis in un altro ruolo, l’Algoritmo Umano vi consiglia:

 

Una vita spericolata, Marco Ponti, 2018 (Netflix e RaiPlay)

Scambiato per un rapinatore, un ragazzo male in arnese finisce con una cifra esorbitante di denari rubati a scappare dai ‘legittimi’ proprietari, col suo migliore amico e una ragazza che si finge un loro ostaggio. Matilda De Angelis dà un qualche spessore al personaggio di una starlet del cinema che approfitta della finto rapimento per rilanciare la sua carriera, in un film fracassone che spinge l’acceleratore sul grottesco.

Le storie di ‘criminali per caso’ stanno diventando una sorta di nuovo classico della commedia italiana, e il prototipo è:

Smetto quando voglio, Sydney Sibilia, 2014 (Netflix, Amazon Prime, RaiPlay, Rakuten tv)

Primo nientemeno che di una trilogia, è stato un ‘caso’ e un campione d’incassi nel 2015. Diretto dall’allora poco conosciuto Sydney Sibilia, è un divertente heist movie all’italiana, in cui a progettare un colpo, anzi, un’intera carriera criminale, non sono dei professionisti della malavita, ma un gruppo di amici iper-acculturati e debitamente disoccupati. Facendo leva sull’incongruenza di un manipolo di laureati che si trova alle prese con le difficoltà della vita criminale, Smetto quando voglio è un piccolo gioiello di comicità, senza le ambizioni di rinnovare la commedia all’italiana, ma con un’autenticità di entusiasmo narrativo capaci di contagiare gli spettatori anche più smaliziati.

 

 

 

 

 

 

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