Cercherò di scrivere un omaggio a Raffaella Carrà senza usare la parola icona. Dubito di riuscirci perché lo impone la liturgia del coccodrillo e perché, di fatto, Raffaella Carrà lo è, appunto, un’icona. Lo imporrebbe anche la retorica della celebrazione, una specie di feticistica euforia che porta a scrivere affermazioni perentorie e molto discutibili: si legge che Raffaella Carrà avrebbe cambiato la società a colpi di pailettes o che, in Spagna, contribuì a spazzar via le rigidità del Franchismo. Tutto quanto fa spettacolo, giudizio pomposo e semplicistico compreso.

Abusare di quella parola, così rassicurante e pigra, equivarrebbe ad allinearsi alla televisione odierna in cui tutti sono grandi, belli e bravi anche quando non lo sono. Non al livello della Carrà, questo è sicuro. Per celebrarla preferisco concentrarmi su un’epoca della tv, fruttuosamente nazionalpopolare, dalla quale erano ancora esclusi due estremi.

Il primo sono i reality show, ossia la vetta assoluta del potere della televisione; un luogo in cui diventi famoso anche se non sei capace a fare nulla, ma esclusivamente perché c’è una telecamera accesa che ti riprende, vai in onda, e qualcuno seduto sul divano sta a sentire le tue stronzate. Purtroppo per un tempo più lungo di un quarto d’ora, tanto per avvalorare e insieme confutare la previsione e la tesi di uno che di icone (scusate, licenza poetica…) se ne intendeva, cioè Andy Warhol.

All’altra estremità troviamo invece l’iper-specializzazione: drappelli di cantanti, imitatori, ballerini così allenati, tonici, promettenti, talentuosi e attraenti che stanno lì a dimostrare la differenza fra la tv di oggi, affollata di star in erba affamate di apparire ma incapaci alla lunga di lasciare un segno, e quella che incoronò Raffaella Carrà.

Credo che Raffaella Carrà sia stata una regina dall’abbraccio tentacolare che ha tenuto a battesimo i telespettatori quando erano ancora telespettatori liberi perché inermi e passivi. Guardavano e basta. Non volevano per forza partecipare. Diventare una star della televisione era un’illusione da coltivare nella privacy del sogno ad occhi aperti. Chissà, forse le ragazzine di quei tempi cantavano “ma che musica maestro” usando la spazzola come fosse un microfono davanti allo specchio. E non erano immerse in un fraintendimento generalizzato, per cui in cuor loro, pur sognando, sapevano che non avrebbero mai raggiunto quel livello. Sì, prima di Tik Tok, in pratica. Apparire in prima serata su Mamma Rai era un sogno lontano, più lontano di Hollywood, persino più lontano di Cinecittà. Metropolitana compresa.

La grandezza catodica della Carrà sboccia nella società italiana ‘pretina’, democristiana e pentapartitica, quando un programma televisivo in prima serata era un appuntamento che invitava alla fruizione collettiva di un evento dai contorni nitidi e solenni, ed esisteva il più implicito e granitico degli accordi fra chi lo show lo guardava e chi lo show lo offriva. C’era una sostanziosa e incolmabile distanza, tra fruitore e autore, fra telespettatore e showgirl/showman. E in quello spazio era possibile creare segni indelebili. Perché c’era il tempo di assimilarli. Inoltre, la quarta parete era ancora eretta e visibile. E nessuno sentiva l’ambizione di demolirla per entrare nello show.

Chi guardava non aveva password, decoder, cavo hdmi, mysky, algoritmi, e nerditudini varie. La tv era un filo diretto e in diretta per il pubblico idealmente assiepato a godere dello stesso spettacolo, prima che la normale e benedetta evoluzione tecnologica ci trasformasse in illusi manovratori dello spettacolo domestico, in creatori di palinsesti personalizzati. Trovo difficile pensare che la Carrà, così come Pippo Baudo o Mike Bongiorno sarebbero saliti sul trono degli immortali in una televisione in cui impera l’on demand.

All’epoca c’era una selezione più rigorosa fra programmi riempitivi e programmi-evento durante i quali capitava persino che in scena irrompesse un futuro premio Oscar – che anni dopo avrebbe perfino declamato la Divina Commedia di Dante – per palpare tette, culo e cosce della Raffaella presentatrice, senza gli oscurantismi da #metoo o il ditino alzato del twittatore moralista. Se il tanto atteso show riuscivi a guardarlo in diretta, bene, altrimenti beato te che avevi una vita sociale. Non sapevi niente in anticipo, nemmeno quanti fagioli ci fossero in un vasetto (“Pronto, Raffaella?”), mentre probabilmente ora saremmo costretti a sorbirci le pedanti spiegazioni filosofico-matematiche di qualche bacchettatore saccente sull’impossibilità che i fagioli fossero – numero a caso – 8994. Sì, i telespettatori erano più naif e meno smaliziati. Li conquistavi più facilmente ma, e questo è il punto, dovevi saper fare televisione. La celebrazione di Raffaella Carrà è anche la celebrazione di una tv che non c’è più e di uno spettatore che non c’è più. E sicuramente non vogliamo che nessuna delle due entità ritorni, essendo essi, sia tv che spettatori, così duttili e camaleontici da adattarsi alla realtà che li circonda, più di quanto non riescano ad influenzarla. Però ci piace ricordare un’epoca meno affollata, un trapassato remoto di carismatici autori come Gianni Boncompagni, Franco Bracardi, Enzo Trapani; un dietro le quinte formato da pochi ma infallibili professionisti che non si smarrivano nel magma della multiopzione.

Sì, le strofe di “Tanti Auguri” furono un urlo disinibito ed emancipato. Anticonformismo televisivo, però, Non esageriamo andando troppo oltre. “Tanti auguri a chi tanti amanti ha” era uno slogan motivazionale contro i monogami rompicoglioni. E con quel gioioso squarciagola, audace e ironico, Raffaella fu una pioniera del libero arbitrio in camera da letto, come trovate scritto su The Guardian. Tutto vero. Perché vigeva un comandamento: se lo dicono alla televisione allora è vero, allora si può fare.

Fu, tuttavia, la stessa Raffaella Carrà tra le prime a coinvolgere il pubblico in diretta.  Imparò a farlo negli Stati Uniti dove si esiliò per intercettare il nuovo corso dell’intrattenimento domestico e dare lustro a una nuova idea di varietà che superasse le radici del nostro avanspettacolo e abbattesse la suddetta quarta parete, contribuendo a dettare le regole della televisione a venire. Sapeva farlo però con humor e disinvoltura, mantenendo un livello accettabile anche nell’ambito della lacrima facile che nessuno dei suoi imitatori riuscì a raggiungere.

Come tutte le icone (scusate, ci sono cascato) comunque, la Carrà è passata successivamente per due fasi assolutamente fisiologiche. In un’offerta televisiva bramosa di format e volti nuovi, succedeva che la sua presenza fosse ritenuta stucchevole. Stavano già cominciando i tempi in cui non era più una priorità saper fare televisione, ma era appunto sufficiente trovarsi IN televisione.

Così come è stata poi divorata dalla brandizzazione, infilata nel revisionismo trash, surclassata dalla sua stessa iconicità. Succede quando ciò che fai esce dal tuo repertorio, decolla e diventa segno e quel segno viene usato anche per descrivere altro.

In questi casi si pesca un momento, un ricordo che celebri e spieghi il peso specifico sul proprio immaginario di una celebrità così popolare quando viene a mancare.

A me viene in mente la scena della festa de “La grande bellezza” quando Paolo Sorrentino inquadra una Roma vignettistica e cafona di borghesi sudaticci che ballano sulle note remixate di “A far l’amore comincia tu”. Non credo che potesse scegliere un brano migliore per congelare, in una sequenza perfetta, la decadenza di una porzione di società in agonia, in netto contrasto con la spensieratezza pop di quel brano. Mi sa che il destino delle icone (…) è entrare in una grande library per poi descriverci attraverso l’uso che ne facciamo. E per come, raccontando loro, in realtà raccontiamo noi stessi. Anche per questo Raffa è stato ed è un vero fenomeno di costume.

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