“The Palace”, il film di Roman Polanski presentato fuori concorso al Festival di Venezia, è una commedia. Nera e grottesca ma pur sempre una commedia. Un cambio di prospettiva, uno spostamento su un altro campo da gioco, compiuto sulla linea del traguardo biografico, perché il novantenne regista polacco non si cimentava con il genere dal delirante e scostumato “Che?” datato 1972.
In “The Palace”, in un albergo sulle montagne della Svizzera si raduna una fauna di ricchi viziati e cafoni, pronti a festeggiare l’arrivo dell’anno 2000: un evento solenne su cui aleggia il macabro fatalismo del millennium bug, un capolinea ideale per questa umanità squallida e in declino che Polanski scolpisce in una caricatura, infilzandola con lo sguardo corrosivo di un autore che ha fatto di tutto e può permettersi di tutto. Persino, appunto, tornare alla commedia dopo aver cercato il male e la follia dentro le ombre e i ghetti della mente per un’intera carriera. Nel film abbondano le citazioni, così come i rimandi ad altre coralità, quelle di Altman, ad altri disfacimenti altoborghesi – surreali come in Bunuel, materiali e metaforici come per il Blake Edwards di “Hollywood Party”. Polanski fa visita agli eccessi demenziali dei Monty Python e misurando il film con il metro del cinema italiano non si commette peccato mortale a trovare un’attinenza con le commedie caciarone dei Vanzina.
Un hotel, dunque, l’ennesimo spazio chiuso, topos di riferimento per il cinema di Polanski. Dal suo esordio polacco, “Il coltello nell’acqua”, girato su una barca, passando per il castello situato su un’isola di “Cul-de-sac”, e naturalmente per la trilogia dell’appartamento “(Repulsion”, “Rosemary’s Baby”, “L’inquilino del terzo piano”). Ma si possono estendere gli esempi arrivando fino alla carneficina dialettica del furente dramma da camera di “Carnage”, o al claustrofobico duello domestico fra vittima e aguzzino de “La morte e la fanciulla”.
Il luogo familiare e ben delimitato è per Polanski uno spazio mentale, la zona in cui si genera il perturbante, l’orrore, e si diffondono le pulsioni più ignobili. Anche se il raccapriccio non viene mostrato, come l’incestuoso focolare domestico in quel grande affresco noir contro il capitalismo che è “Chinatown”. Spazi in cui crollano certezze e si sviluppano paranoie, e dove il male assume varie forme, persino quella suprema del diavolo di “Rosemary’s Baby”, impegnato in un amplesso per concepire l’Anticristo.
In “The Palace”, il male è la volgarità della ricchezza ostentata senza parsimonia, la stupida ebbrezza del lusso, lo sfarzo artificioso e grossolano di un’umanità fallita, che Polanski racchiude in una tragicommedia volutamente stereotipata, in una straripante pantomima di maschere, feticci e protesi. Rimane intatta la sua capacità affabulatoria, che gli ha permesso di tenersi sempre in equilibrio, coniugando il cinema d’autore e le esigenze commerciali, come il suo amato Hitchcock, declinando in arte i guai vissuti nella sua vita travagliata iniziata con la persecuzione dei nazisti e nutrita da una formazione culturale immersa nel teatro dell’assurdo, fertile concime per thriller psicologici, incursioni nel soprannaturale, blitz nei labirinti dell’inquietudine.
Una filmografia da riscoprire per intero, anche a partire dagli estremi, come l’estemporanea toccata e fuga nel genere avventuroso di “Pirati” che si rivelò un flop, oppure dal suo film più premiato, “Il pianista” (su Netflix e Amazon Prime), che collezionò 3 Oscar e la Palma d’Oro a Cannes.
Ogni opera di Polanski contiene l’ispirazione per guardarne un’altra, ogni suo film è il punto di partenza di un percorso fatto di ciclicità lungo il quale riconoscere tematiche ricorrenti, nessi e peculiarità. Convinti di questo approccio randomico, noi ne abbiamo scelti cinque, una playlist contenuta, il biglietto per un viaggio tortuoso ed entusiasmante nel patrimonio artistico di un gigante del cinema.
CHE?
(Amazon Prime)
Una ragazza in fuga da una banda di pervertiti stupratori si rifugia in una villa sulla costiera amalfitana, frequentata da personaggi stravaganti che la introducono in un mondo paradossale e altrettanto depravato. Sydne Rome, e un Marcello Mastroianni in versione sadomaso, sono i protagonisti di un’opera anarchica, che nella filmografia di Polanski arriva dopo il rigore formale di “Rosemary’s Baby” e “Macbeth”, e prima della perfezione noir di “Chinatown”. Come un giro matto al tavolo da gioco del cinema. Un divertissement dissoluto, definito come un ‘Alice nel paese delle meraviglie per un pubblico adulto’. Da rivedere, perché i suoi personaggi grotteschi sembrano congiungersi con l’umanità trash immortalata in “The Palace”.
CHINATOWN
(Paramount)
Scavando nel mondo delle speculazioni edilizie di Los Angeles, un detective scopre gli inconfessabili segreti di una ricca famiglia. L’Oscar alla sceneggiatura, firmata da Robert Towne, e 4 Golden Globe sono il fiore all’occhiello di una delle opere capostipiti del neo-noir. L’investigatore J.J. entra di pari passo allo spettatore dentro la spirale diabolica che sta inghiottendo la città degli angeli. Condivide con lo spettatore, in tempo reale, il lento naufragio in una palude di inganni e raggiri. Il suo “private eye” coincide con l’occhio del pubblico, il personaggio stesso ne è un surrogato, tanto che nella scena in cui J.J. perde i sensi, anche l’inquadratura sprofonda nel buio dell’incoscienza. John Huston è il simbolo del capitalismo più turpe, Faye Dunaway una femme fatale moderna e conturbante, Jack Nicholson è il Re del mondo.
FRANTIC
(Sky, Now)
“Frantic” racconta le rocambolesche e angosciose vicissitudini di un chirurgo americano (Harrison Ford) che si inoltra nei bassifondi di Parigi per ritrovare la moglie scomparsa. Polanski avanza con la macchina da presa nell’immaginario cinematografico di Alfred Hitchcock, corteggiandolo come un amante spudorato. Quell’amore per il cinema da cui solo la morte lo può separare. Da “Intrigo internazionale” a “La donna che visse due volte”, passando per “L’uomo che sapeva troppo” e come condimento una supercitazione di “Pyscho”, il thriller polanskiano/hitchcockiano è la storia di un forestiero disorientato in una terra ostile che rimane incastrato dentro un rebus da risolvere senza l’appoggio delle autorità. Il medico può e deve fidarsi solamente di una giovane autoctona, misteriosa e scafata (Emmanuelle Seigner). Un film-serenata al maestro inglese in cui rintoccano le tematiche care a Polanski.
VENERE IN PELLICCIA
(Raiplay)
Polanski ripropone una messa in scena vincolante, ricorrente nel suo cinema: un numero esiguo di personaggi dentro uno spazio confinato. Tratto dal romanzo erotico di Leopold von Sacher-Masoch, già adattato per il palcoscenico da David Ives – qui in veste di co-sceneggiatore – “Venere in pelliccia” isola i due soli attori in campo, Emmanuelle Seigner e Mathieu Amalric, in un teatro parigino, dove un’attrice e un regista animano un sottile duello nel segno della seduzione e del desiderio di supremazia. Il rapporto di coppia nella giurisdizione del mondo borghese è uno dei temi scritti in grassetto nella ‘to-do list’ di Polanski, che qui lo sviscera ancora, con diramazioni che portano agli istinti soppressi, alle piccole perversioni, a un formicaio di crudeltà verbali, fino al masochismo e all’ambiguità dei ruoli assunti dagli interpreti dentro ogni relazione. I dialoghi recitati, presi dal testo che attrice e regista devono mettere in scena, si alternano ai dialoghi ‘veri’, affilati come lame di rasoio, in un avvicendamento metalinguistico fluido e flessuoso. È un film fatto sostanzialmente di parole, ma da cui sgorga una carnalità debordante.
QUELLO CHE NON SO DI LEI
(Sky, Now, Raiplay)
Una scrittrice in crisi creativa e subissata da strane lettere anonime, diventa intima amica di una sua fan/musa dotata di spiccata perspicacia e con cui la romanziera finisce per instaurare un rapporto morboso. Bilanciando realtà e finzione, Roman Polanski adatta il libro di Delphine De Vigan, costruendo un dramma magmatico con propaggini da thriller psicologico, che indugia sul tema del doppio, sulla manipolazione e sul complicato processo che porta alla creazione artistica, seminando interrogativi ed enigmi. Emmanuelle Seigner ed Eva Green duettano come una coppia di dark lady impegnate in un gioco di specchi. E lo stesso film è uno specchio che riflette alcuni topoi polanskiani, come la dissociazione dell’individuo, vagliata nella già citata trilogia dell’appartamento. La scrittrice di “Quello che non so di lei” finisce per sperimentare lo stesso tilt mentale di Ewan McGregor, il ghost writer de “L’uomo nell’ombra” e di Johnny Depp, esperto di testi rari ne “La nona porta”. Alle prese dunque con un ginepraio infernale e destabilizzante di misteri e persecuzioni che sconfinano nella fissazione a partire da un libro, che è del resto un altro luogo chiuso, con le copertine al posto delle pareti. Un altro spazio recintato e senza via d’uscita che a un click dello sguardo può generare alienazioni e malsani squilibri.