Romantiche                                                                                   Voto 6+

(Sky, Now, Amazon Prime)

Il debutto alla regia dell’eclettica Pilar Fogliati è un cinguettio femminista che rilancia la solida tradizione italiana della commedia a episodi, rielaborando in salsa ‘super’ rosa la lezione de “I Mostri” e le tipizzazioni caricaturali del primo Carlo Verdone.

ONE WOMAN SHOW

Quattro episodi indipendenti, legati fra loro dalla figura della stessa psicoterapeuta (Barbora Bobulova), osservatrice dei tic e delle spassose vicissitudini di quattro nevrotiche giovani donne che non si conoscono fra loro, tutte interpretate da una funambolica Pilar Fogliati (Nastro d’Argento come miglior attrice) decisamente sugli scudi nello sfoderare la sua expertise camaleontica, calcando felicemente la mano sugli stereotipi. E fissando con spavalda irriverenza e interessante scrupolo l’umanità che circola nella Capitale, da sempre bonaria nave-scuola che accoglie e svezza sia gli autoctoni che gli ospiti, pieni di molti sogni e troppe idiosincrasie. Il plurimo ritratto femminile della mattatrice Fogliati si offre come una commedia generazionale, dall’andamento pop, radicata in un territorio preciso di cui i molteplici volti, gli atteggiamenti, gli stili di vita restituiscono una manciata delle innumerevoli angolazioni da cui si può inquadrare una città che fa finta di dormire ma è invece attenta testimone oculare dei cambiamenti in essere.

Ecco quindi la Roma del Pigneto, gentrificata, artistoide e radical chic, in cui arriva la logorroica palermitana Eugenia Praticò, “aspirante al successo di nicchia”, con in mano un bagaglio extra large di entusiasmo e una sceneggiatura (“Olio su mela”) in cerca di produzione. Fino a rendersi conto, dopo 6 anni, che il mondo ha continuato a girare solamente per gli altri. Non per lei. La Fogliati sa inquadrare con occhio malandrino il mondo dei fuorisede, universitari o aspiranti creativi, italianizzando il microcosmo indie visto svariate volte nel cinema indipendente americano. Quello del famigerato posto nel mondo in cui collocarsi.

Nel secondo episodio, il testimone passa a Uvetta Budini di Raso (il nome è puro genio) svampita ragazza super-aristocratica che si innamora solo dei cugini e che, per provare il brivido di un lavoro, si fa assumere per ben 5 giorni nella bottega di un fornaio perché lei è sempre stata attratta dai lavori manuali (“Le ombre cinesi, gli applausi, le pippe”). Stavolta la Fogliati disegna in modo beffardo i rampolli della Roma bene, dove si parla come Chiara Ferragni (“Guys”, “Super”) e si ammirano gli artisti concettuali che lavorano la corteccia degli alberi.

Con un balzo, poi, la regista ci porta a Guidonia, cittadina alle porte della Città Eterna, dove si può ‘morire di pizzichi e di noia’ per seguire i dubbi della verace commessa Michela Trezza, in procinto di convolare a nozze con un carabiniere pacioccone. E qui la storia sa anche cambiare registro facendosi un giro in un cimitero muovendo sulla scacchiera della commedia le pedine del ‘cringe’.

Infine il cerchio si chiude sulla tracotante pariolina Tazia de Tiberis, fra le discoteche e le escort di un quartiere griffato e snob in cui, tra le altre cose, si disquisisce del numero di secondi da concedere ai fidanzati se proprio vogliono ammirare il culo di un’altra ragazza prima che l’attenzione diventi intollerabile.

La sceneggiatura, scritta dalla stessa Pilar insieme a Giovanni Veronesi e Giovanni Nasta, è suddivisa concretamente in episodi, ma è ulteriormente segmentata in ideali palcoscenici sui quali la protagonista mattatrice può sfoderare la sua qualità più pregevole: forgiare di volta in volta il suo personaggio satirizzando il lessico, la mimica, la dizione. Traslocando dentro una trama le tipizzazioni che Pilar aveva già introdotto in un video diventato virale sui social in cui imitava le diverse calate dialettali dei quartieri romani.

La Fogliati maltratta con ironica impertinenza le sue giovani donne, ne estrapola le ingenuità e i lati più vulnerabili, ma le ama alla follia. Costruisce così un substrato di simpatia che rende questa infatuazione contagiosa. Un’astuzia che le permette di venderci come plausibile un mondo in cui invece gli uomini sono dipinti, banalmente, come i veri mostriciattoli. Osservando il film nelle sue dinamiche interne, infatti, lo sguardo della Fogliati ha le diottrie del femminismo feroce, inguattato sotto l’abbondanza di autoironia. Con una mano da imbonitrice accarezza e con l’altra mano picchia, random e a rilascio ritardato.

Se osserviamo gli uomini di “Romantiche”, scopriamo quanto segue: quando sono belli come Sanis Joaquin Bonplap Del Pioppo (puro genio anche qui…) allora non possono che essere vanesi e spocchiosi. Altrimenti devono essere fedifraghi, non particolarmente intelligenti, oppure infantili, incapaci di elaborare un lutto e pure un po’ impotenti. Fa eccezione, al primo impatto, il fornaio marocchino. Personaggio positivo, ma simbolo del classico bravo ragazzo, del pezzo di pane che non può che cedere all’irresistibile goffaggine dell’attraente nobildonna in erba per poi portarla in moto verso il mare.

In questo mosaico crudele non rientrano i maschi anziani, i sacerdoti dall’aria giovanile e i fidanzati bonaccioni, perché sono più controllabili e meno dannosi alla causa, già disinnescati dalla natura, dal voto di castità e dal tempo, oltre a servire da mezzo di contrasto per far emergere l’esuberanza confusa, ma sempre diretta a un’autodeterminazione onesta e genuina delle donne. Escort comprese, ovvio. Che fanno, sì, il mestiere più antico del mondo, ma per solidarietà femminile riservano un trattamento punitivo agli uomini sposati. Sex Worker non per avidità, inoltre, ma per aiutare le sorelle a vincere “Amici”.

Sia donne che uomini galleggiano perciò all’interno di un mare di stereotipi (compresa l’insegnante lesbica, unico personaggio femminile vagamente negativo) che la Fogliati manipola e arricchisce con mano ferma, ben attenta a cambiare il segno da porre davanti al genere sessuale.

Se infatti per le donne, il segno è un  “+” perché lo stereotipo iperbolizzato diventa il bonus utilizzato per costruire i personaggi in funzione comunque positiva, nel caso degli uomini, perseguitati dal segno “-“, lo stereotipo è un mezzo per mostrare le loro inguaribili debolezze incarnite. Ed ecco che il cinguettio femminista diventa il ruggito del predatore mascherato da clown con un bersaglio ben preciso nel mirino. “Chapeau”, direbbe Uvetta Budini di Raso.

 

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