Cinque giorni di trip ipnotico che ti fonde il cervello come un allucinogeno a rilascio lento e prolungato. Il Festival di Sanremo stravolge ogni criterio di valutazione e butta all’aria la tua cassetta degli attrezzi. Gli stessi, fortificati dall’esperienza, con cui abitualmente valuti un film, un album, un libro. 

Al termine della prima serata non ti piace niente. E brontoli, accusi, punti il dito. 

Alla fine dell’ultima serata ormai ti fai andare bene tutto. 

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Sei come quei galeotti ribelli, gonfiati di botte dai secondini e chiusi in isolamento con la camicia di forza. Dopo cinque giorni di digiuno, il cibo della prigione ha il gusto di un manicaretto. Dopo cinque giorni di pipi in un secchio, la combo tazza-lavandino sembra la toilette di un lussuoso hotel di Dubai. 

Elettroschoccato come Jack Nicholson in “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, trovi un motivo di interesse in performance che avresti schifato prima di attraversare quel maledetto varco e piombare in luoghi del passato seppelliti nel subconscio; quei posti pieni di angoscia e apatia in cui i Neri per Caso erano i guru della seduzione: “Ci devi stare, è inutile sperare di recuperare se hanno detto no”. Tre verbi all’infinito per capire che non te l’avrebbe data, quando nella vita reale basta un fonema. 

C’è pure chi ha rapito “Gianna” di Rino Gaetano e “Un’avventura” di Lucio Battisti dall’ospizio dei falò.

Ragazzo fortunato” e “Penso positivo” di Jovanotti vengono rivisitate come canzoni d’autore. Beh sì, esisterà qualche ‘ismo’ che giustifica questa inspiegabile perversione.

Ti dici: Madame è un incrocio fra Thom Yorke e Bjork.

E poi: questa edizione ha una fisionomia più indie del solito

Hai letto su giornali e social dei pistolotti insostenibili (tipo questo) che blaterano di sessismo e mascolinità tossica, e finisci per prendere in simpatia pure l’inutile Zlatan Ibrahimovic, fischiettando quell’orrida strimpellata da giostraio che lo introduce mentre scende le scale. 

Fino a una settimana fa facevi le pulci all’ultimo disco dei Foo Fighters e adesso ti ritrovi ad accettare inerme i farneticanti solipsismi di Achille Lauro che, una volta compiuti i 17 anni, sono già minestra riscaldata. “Sono il punk rock, icona della scorrettezza, purezza dell’anticonformismo politicamente inadeguato, l’estetica del rifiuto, cultura giovanile, San Francesco che si spoglia dei beni”.

(Ma siamo seri?).

Oppure ti viene l’acquolina in bocca davanti alla destrutturazione della sacralità del palco messa in scena dallo Stato Sociale. Che guardano agli Skiantos e a Enzo Jannacci.

Fai il tifo per i Maneskin perché hanno presenza scenica, la loro canzone avanza impennandosi e stratificandosi nel puro rock. In cuor tuo però, sei consapevole di essere vittima di un eccesso di contestualizzazione. Hai accumulato abbastanza dischi e concerti per sapere che i Maneskin sono un prodotto di buona fattura costruito al tavolino di X Factor, e che in qualsiasi raduno della storia del rock, presente e passato, li farebbero esibire a mezzogiorno mentre la gente sta montando le tende e nessuno ancora si droga, si rotola nel fango e scopa dietro i cespugli.

E ripensi a quel post che hai letto da qualche parte, forse su una chat di gruppo. Quel tizio che diceva che i Maneskin sono una band amata dalle ultracinquantenni ingrifate o dai quasi sessantenni nostalgici che accumulano vinili a iosa, sproloquiando di nuove band per sentirsi ancora giovani e mettere la paura della morte sotto il tappeto.

Fiorello era solamente un cameriere sorridente e dal passo svelto, a cui lasciare un euro di mancia in più se ti offriva l’amaro, ma quando la droga ha attecchito e l’involuzione è completata, lo giudichi un carismatico crooner che non sfigurerebbe accanto a Dean Martin e Sammy Davis Jr. a Las Vegas. 

Ascolti gli svarioni di Barbara Palombelli mentre sviscera la sua ‘adolescenza problematica’ passata ad agosto a Roma a studiare (urka!) e, a due respiri dal coma farmacologico, ti sorprendi a provare un moto di empatia, mentre fino a domenica scorsa ne avresti pesantemente insultato la retorica gocciolante da ogni parola pronunciata. 

Le impaginazioni dei giornali non aiutano. Ti fomentano con la foto giusta, la didascalia in neretto, il virgolettato tattico. E giù un’altra pillola blu. Influenzano il tuo giudizio dentro la bolla in cui sei imprigionato e non vedi che Max Gazzè continua a imitare se stesso da vent’anni; non trovi rivoltante Arisa e Michele Bravi che cantano un’intera canzone tenendo una rosa in mano.

Farfugli frasi sconnesse. Amadeus è un grande professionista. Come Pippo Baudo. Laura Pausini esporta la nostra musica all’estero. Vittoria Ceretti si deve alzare prestissimo per volare a Parigi dove è attesa da una passerella. 

Caspita!

E poi ripensi a quel monologo: “Sono un bambino con la cresta, un uomo con le calze a rete, una donna che si lava del perbenismo e si sporca di libertà. Sono l’estetica del rifiuto, il rifiuto dell’appartenenza ad ogni ideologia, sono Morgana che tua madre disapprova, contro l’omologazione si è sempre fatto così”. 

Asfissiante e trita. A vederla scritta questa roba fa ancora più impressione. Scarti mentali scambiati per sfrontatezza ribelle. Dentro Sanremo succede anche questo.

Sembra di stare nel 1933 a Berlino. O in mezzo a quei genitori invasati che osservano i loro figli giocare a calcio, convinti che un giorno saranno dei campioni, quando invece non taglieranno nemmeno il traguardo della serie C.

Ti ritrovi, con il livello evolutivo di un uomo delle caverne, ad agitare la clava contro la covata del demonio, contro un ventennio di “Amici”, “X Factor” e “Il Grande Fratello”. Le macerie umane inseminate dall’Anticristo riunite su un palco per cinque giorni di fila. 

In questo miracoloso reality-contenitore che trasforma l’acqua in acqua colorata e cerca di arredare il Colosseo con mobilio boho chic, emerge, fiera nella sua indipendenza, Orietta Berti. Lei. La colonna corinzia nei Fori Imperiali invasi dai barbari.

A 77 anni (la stessa età di Keith Richards) si presenta trotterellando sul palco vestita tutta sbrilluccicante, come una zia alla Vigilia di Natale, e si esibisce senza fronzoli né contorsionismi in una canzone puramente sanremese d’antan. Un inno all’amore e alla monogamia a oltranza, se proprio vogliamo farne l’esegesi, senza connotazioni ulteriori. Nessun significato sociologico. Una canzone d’amore, così un po’ a salve, sul solco di Nilla Pizzi. Una tombolata. 77, le gambe delle donne. 

Orietta Berti accetta persino i fiori dando al gesto il solo e unico significato che questo gesto possiede. Al netto delle menate delle femministe da jacuzzi.

Zero stress, consapevole di sé, con lo sguardo di una maestra che spiega, immobile sul palcoscenico, Orietta è una figura sottile e luminosa come gli alieni di “Incontri ravvicinati del Terzo Tipo”; e la sua melodia non bisogna suonarla al contrario alla ricerca di un messaggio satanico che non c’è.

Perfettamente collocata.

Disclaimer: intendo ‘artisticamente’ collocata. Non sto tessendo le lodi di una donna perché sfodera il basso profilo, canta, saluta Amadeus e se ne va senza rompere le palle agli uomini. “Ciao Amedeo”. 

Inoltre, a differenza di Orietta, nessuno degli altri artisti in gara, quando spegnerà 77 candeline parteciperà a Sanremo. Sono pronto a giurarci. E sono persino stato sfiorato dall’auspicio che avrebbe dovuto vincere. Così, tanto per ristabilire un equilibrio nel mondo e salvarci dal disorientamento provocato da un’estetica troppo fluida. Se il pendolo oscilla verso una rivoluzione appannata e artificiosa, bisogna necessariamente spingerlo dalla parte opposta. Cacciare dal tempio il rap da finti incazzati, le ballate stucchevoli, i talent show, i primimaggi, i confessionali.

Ma, ricontestualizzando, il festival è un organismo reazionario, con una liturgia precisa, in cui l’anacronismo si mescola al rispecchiamento dei tempi che viviamo. E’ uno show sfasato e diluito, un’mischiatutto’, una sagra di paese in smoking da cui bisogna disintossicarsi il prima possibile per non diventare sudditi di un regime culturale in cui rischi di continuare ad apprezzare il ciarpame. 

La mattina successiva, in pieno hangover, con la mente in via di snebbiamento, temi che i danni siano irreversibili. Sei stato in intimità con il diavolo. L’unica via è resettare tutto. Perché non eri te stesso. Eri ciò che i reality, i social, i siti vorrebbero che tu fossi. Il peggiore degli scenari possibili.

E ti poni la domanda suprema: è nato prima il sonno della ragione o il Festival di Sanremo?

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