SU RAIPLAY “SEI PEZZI FACILI”, OVVERO SEI PIECES TEATRALI SCRITTE DA MATTIA TORRE, LO SCENEGGIATORE NOTO PER “BORIS” CHE NON SMETTE DI ESSERE COMPIANTO E MANCARE, DIRETTE PER LA TV DA PAOLO SORRENTINO
Lo sceneggiatore, come diceva il grandissimo Ugo Pirro, Oscar alla sceneggiatura nel 1971, in fondo per il pubblico rimane sempre ‘soltanto un nome nei titoli di testa’.
Ecco, Mattia Torre, sceneggiatore della serie cult “Boris”, oggi non c’è più, ma è ben più che un nome nei titoli di testa: la sua sfortunata e troppo precoce scomparsa, a soli 47 anni nel 2019, ha spinto i suo colleghi e moltissimo gli attori per cui scriveva a regalagli una notorietà postuma notevole, meritata e forse a cui nemmeno lui stesso, ironico e schivo, avrebbe ambito. Quest’anno la Rai ha messo insieme sei testi teatrali scritti da Torre tra il 2005 e il 2018, ha richiamato gli attori per cui erano stati pensati e li ha messi su un palco dell’Ambra Jovinelli a Roma, e ha scelto l’iper famoso Paolo Sorrentino per regia televisiva. Un omaggio a Mattia Torre, al genio di Mattia Torre come viene pubblicizzato con commozione dai protagonisti, ma anche un colpo di genio in sé.
Con la presenza di Paolo Sorrentino e, citando il più famoso dei nomi in cartellone, Valerio Mastandrea, il titolo richiama un ampio pubblico mainstream, che accede alla visione senza sapere che non vedrà né il solito Sorrentino, né tantomeno il solito Mastandrea. Il ‘trucco’, ben riuscito, non è solo quello di avvicinare tanti al teatro di Mattia Torre, ma di avvicinare tanti al teatro in sé. Riportare qualcun altro, oltre i pochi ossessionati possessori di abbonamenti, a fruire di questa arte antichissima, bisavola del cinema e trisavola della televisione. Un colpo, appunto, di teatro, oltre che di genio pubblicitario: una volta entrati nei primi 5 minuti di palcoscenico vuoto con l’attore davanti e il nulla nero dietro, di fronte a un testo spettacolare a cavallo tra comicità, disincanto e dramma, lo spettatore di sicuro non ne esce più fino alla fine. Con l’aggiunta della sensazione di non sapere perché ci siamo dimenticati di come era bella questa sobrietà, questa asciuttezza, questa concentrazione sulla parola scritta e sul volto vivo dell’attore, che fa quello che dall’antica Grecia in poi fanno gli attori, al netto di scenografie, musiche ed effetti speciali rutilanti: raccontare una storia.
QUATTRO DEI SEI PEZZI FACILI, CHE TANTO FACILI NON SONO
MIGLIORE
Valerio Mastandrea è un uomo come tanti, che fa un lavoro vagamente incomprensibile, e che è succube praticamente in tutte le situazioni in cui si trova. E’ gentile e debole, e si approfittano di lui. Un giorno ha un incidente terribile, dopo il quale diventa cattivo, e, di conseguenza e inspiegabilmente, amato e carismatico. La rivincita dello stronzo, potremmo sintetizzare. Amaro, divertente, caustico, alla fine spaventoso: il monologo è difficile e bellissimo, e mette in luce le capacità interpretative di Mastandrea, che conferma sulle assi di un palco teatrale la sua qualità di attore intensissimo, uno dei migliori della sua generazione, raramente compiaciuto e sempre selvaggiamente sincero.
GOLA
Valerio Aprea è il protagonista di un breve monologo rappresentativo del tono comico del Torre più conosciuto, quello intelligente sì ma scanzonato, facile, accessibile a tutti, quello di Boris e delle battute fulminanti. Aprea, con la sua mimica un po’ frenetica in cui la gestualità anticipa la parola umoristica invece di accompagnarla, amplificandone l’effetto comico, spiega a noi stessi l’ossessione tutta italiana per il cibo. Una corsa divertita tra i luoghi comuni che sappiamo veri sulla nostra tradizione, che si interroga sui perché reconditi di una fame atavica e inutile ai tempi del benessere, fatta risalire incongruamente alle lontane ferite della guerra: che noi scacciamo la guerra a colpi di pasta al forno, noi c’abbiamo un pacifismo gastronomico. Esilarante nella verosimiglianza delle situazioni che tutti abbiamo vissuto, surreale negli esiti finali sempre paradossali: “sono in molti a sostenere che sì, si può mangiare giapponese, ma mai a stomaco vuoto”.
PERFETTA
Geppi Cucciari è la protagonista di un monologo che racconta un mese della vita di una donna, scandito dai diversi momenti ormonali del ciclo mestruale. Ora, un testo che parla di sindrome premestruale, umore nero e fantasie sessuali femminili strettamente collegate alla fase di ovulazione, ma scritto da un uomo, dal punto di vista degli estremismi del politicamente corretto sarebbe appropriazione culturale di genere, o qualcosa di simile. Fatto sta che il testo, oltre che ferocemente divertente, è credibilissimo: Mattia Torre conosceva le donne, evidentemente, ed è stato un grande osservatore. E Geppi è convincente quando ci mostra che la donna, con la sua ondivaga disposizione nei confronti del mondo che copre tutte le tipologie dall’energia alla malinconia alla rabbia operativa, è nel suo insieme effettivamente perfetta.
QUI E ORA
Paolo Calabresi e Valerio Aprea interpretano insieme il ‘pezzo’ più sorprendente dei sei proposti in questa selezione, il più caustico e inaspettatamente cinico, in cui la risata che nasce dalla rappresentazione dei cliché socio-culturali alla fine viene soffocata da una nemmeno troppo vaga sensazione di sgomento. Uno ‘chef radiofonico’ e un piccolo ‘signor nessuno’ sono vittime di un incidente stradale, e mentre aspettano che qualcuno venga a salvarli nel bel mezzo del nulla, si confrontano, o meglio si scontrano come due belve in gabbia. Lo chef (Paolo Calabresi, spiazzante senza i panni del tonto che di solito indossa), coacervo di presunzione snob e radical chic, scarica la sua frustrazione su quello che immagina sia un piccolo contadino, un agricoltore inutile, al limite un incongruo ‘omeopata’. Lui, un Aprea quasi sempre goffamente sdraiato dolorante in terra, è debole e sgomento, travolto dalla furia inspiegabile del compagno di sventura. Ma, come si dice in questi casi, niente è come sembra. La scrittura di Torre in questo pezzo è eccezionalmente lucida, mettendo a fuoco i tic che caratterizzano ognuno di noi, e finiscono per accecare la nostra intelligenza emotiva, per non parlare di quella tout court.