PARLIAMO DELLA SERIE “SONO LILLO” DISPONIBILE SU AMAZON PRIME, LODANDO IL SUO PROTAGONISTA E DIVAGANDO SUI TRAGITTI FORZATI DELLA COMICITÀ ITALIANA, DOVE TUTTE LE STRADE PORTANO A BORIS, E L’ARTE DEL FAR RIDERE SEMBRA GALLEGGIARE DA ANNI NELLO STESSO STAGNO.

 

Lillo                                                         voto 8

Pasquale Petrolo in arte Lillo il successo se lo merita tutto. Se diamo un’occhiata alla sua biografia e facciamo i conti in ascensore, possiamo considerarlo fra gli artisti più poliedrici di casa nostra. Con “Sono Lillo” e Posaman chiude idealmente il cerchio che iniziò a tracciare agli albori della carriera da fumettista quando, nel 1991, inventò il ‘supereroe’ Normalman (e una sarabanda di personaggi collaterali) portandolo successivamente a teatro, in radio e in televisione. Instancabile e onnivoro clown, nel senso più nobile del termine, Lillo ha imposto la sua partitura di attore, fisica e verbale, in tutti gli angoli dell’intrattenimento che ha visitato. Con il rock demenziale suonato e cantato insieme al sodale amico Greg nella band Latte & i Suoi Derivati ha segnato un’epoca nei locali di Roma e dintorni negli anni 90. Sì, c’è anche la musica nella valigia senza fondo che Lillo trasporta fieramente, seminando risate e cultura, immortalate in genialate autentiche come Pupazzo Criminale, o nelle fulminanti rubriche nonsense di 610 in onda su Rai Radio 2, vincitore del Premio Flaiano, un riconoscimento che Lillo avrebbe riconquistato con il musical “School of Rock”. Illustratore, commediografo, doppiatore, regista. Potrebbe partecipare al decathlon dell’intrattenimento. Lillo sa salire sul proscenio ma non si tira indietro quando è il momento di fare il mediano caciarone dietro le quinte.

Io sono un clown e faccio collezione di attimi” scriveva in un romanzo il premio Nobel Heinrich Boll.

Nel circo-bottega di Lillo gli attimi sono infiniti, essendo lui un factotum da cantiere artistico, portatore sano di un corpo da avanspettacolo ed esperto navigatore di quelle strade secondarie che, comunque vada, portano a una festa. E con Lillo alle feste ci si diverte sempre.

Sono Lillo – La serie                          voto 6

(La comicità italiana nel 2023        voto 5-)

Con la serie targata Amazon, Lillo espande con criterio e logica il personaggio di Posaman, inventato per l’occasione come arricchimento dello show “LOL – Chi ride è fuori”, cavando sapientemente il sangue dalle rape per creare 8 episodi che seguono una triplice linea narrativa.

Un tris di fili esili ma funzionali. Sullo spartito principale che racconta il turbamento di Lillo – stufo dell’ingombrante presenza di Posaman nella sua vita artistica – la sceneggiatura scritta dallo stesso Lillo insieme a Matteo Menduno e Tommaso Renzoni aggiunge sia la crisi coniugale con la moglie – giocando sullo stereotipo del marito infantile e mai intraprendente – sia una scarna traccia da crime movie con Lillo coinvolto nei loschi piani del fratello, squalo dell’azienda di famiglia. Naturalmente Lillo nella parte di se stesso è un comico, ed è considerato la pecora nera della dinastia su cui regna la matriarca castrante interpretata da Anna Bonaiuto.

Le trame secondarie, specie quella crime, sono scritte con garbato equilibrio, senza affondare il colpo né accentuare i rovesci. Gli sceneggiatori e il regista, Eros Puglielli, sanno quando e come fermarsi. Il modo più intelligente per sfornare un impasto narrativo dolce e leggero che serve da contesto per sparpagliare ciliegine sulla torta, costruendo microgag isolabili e spazio sufficiente per i personaggi secondari sui quali svetta, nel ruolo dell’impresario, Pietro Sermonti, il Gastone Moschin della nostra epoca, tenuto fuori solamente per casualità anagrafica dal quadro d’insieme della Commedia all’italiana. Il repertorio di gag è diseguale nella sua riuscita. Sono gag pescate perlopiù da un cestone, a cui Lillo riesce a volte a cambiare il segno in corso d’opera, mentre in altre circostanze (vedi la torta e il cane) si circola fra gli scaffali dei grandi magazzini.

Gustosa l’idea di ritagliare in ogni puntata uno spazio all’esibizione di un cabarettista nel minuscolo club di Agenore/Paolo Calabresi, sedicente oracolo della comicità che millanta di essere stato un idolo delle folle in Cina. A lui il compito di bacchettare la vis comica dei comedians che si avvicendano sul palco, proponendo patetiche varianti ai loro sketch.

Ci sono Valerio Lundini, Edoardo Ferraro, Emanuela Fanelli, Stefano Rapone, Michela Giraud e Maccio Capatonda (la cui caratura comica continua a sfuggirmi, ma è un problema mio). Un’idea accattivante sulla carta: una vetrina inserita dentro la serie, che poteva diventare un’oasi autosufficiente di libera cattiveria verbale, sulla falsariga di ciò che fece Guzzanti con il truce romanaccio Bizio in “Dov’è Mario?”. Un’occasione mancata, a conti fatti, perché i comedian nostrani non pungono, pur illudendosi di essere pungenti. Forse lo sboccato e audace Alberto Farina avrebbe fatto un figurone. O un veterano verace come Maurizio Battista. Però da queste parti, in Italia, i Ricky Gervais, i Bill Burr o una come Nikki Glaser (guardatela su Netflix, è fenomenale), non nascono né si riproducono. Nemmeno in vitro. Questione di contesto culturale, chissà, di futilità dello sguardo su cui incombe un filtro autoreferenziale. Potrebbe essere paura (e incapacità) di prendere di petto temi forti, o semplicemente, ed è peggio, carenza di senso dell’umorismo. È una comicità dal concept opaco, che asseconda il sorriso benevolente.

Paolo Calabrese, Pietro Sermonti e Corrado e Caterina Guzzanti (anche lei nel cast) sono gli anelli di congiunzione con Boris. E in Italia tutte le strade portano a Boris, quasi fosse la Stazione Termini della risata. “Sono Lillo” finisce per subirne la sindrome, e seguendone i binari arriva al solito traguardo: la serie comedy meta-televisiva (accentuata dall’essere, appunto, uno spin-off di “LOL”), che mescola realtà e finzione ridendo di se stessa. La scelta metalinguistica è la più pigra e miope delle fantasticherie narrative. Un trappolone in cui è rimasto impigliato persino Verdone con “Vita da Carlo”.

Si individua il target, cioè quel pubblico di 40-50enni che ancora sbava per Biascica e Stanis La Rochelle, per gli stracult di Marco Giusti, oppure per le satire collaudatissime inventate dal clan di sinistra che divulgava tormentoni e battute su Rai 3, e lo si accontenta con comodo. Tutti bravi, tutto bello. Ma parliamo pur sempre di fecondazioni avvenute 20 anni fa, che ormai, vista la reiterazione, possiamo accomunare alla strategia artistica e industriale che muoveva i fili dei cinepanettoni: diamo agli spettatori la clonazione di una formula e cauteliamoci con la solita sfilata di volti familiari.

La qualità è alta, certamente, ma l’irriverenza è altrove, lontano da questo meccanico sfoggio del sarcasmo intelligente. Il cameo di Corrado Guzzanti – che in un episodio fa il verso all’artista concettuale, facendo ridere tutti, compresi probabilmente gli artisti concettuali – è il punto chiave. Perché è quello che da Guzzanti ti aspetti, ed è quello che da Guzzanti ottieni. Impeccabile. Però…

Meglio il corridoio lasciato libero a Marco Mazzocca che sbeffeggia spudoratamente i cinquantenni nerd patiti dei giochi di ruolo, o l’ampio respiro con citazione annessa di “Una notte da leoni”, con cui si mettono in scena i camorristi e i cantanti neo-melodici, uniti sotto il segno del kitsch.

Non posso azzardare un giudizio negativo su “Sono Lillo”, considerando il materiale di partenza e la necessità del Carpe Diem. Un atto dovuto, questa serie, commissionata per inerzia. Un instant-series. Del resto “Sono Lillo” è una costola di “LOL”, che già nasce e prospera come programma autoreferenziale. La serie nel complesso funziona. Si ride, qua e là, quindi funziona, no? Così come Pippo Baudo è un grande presentatore, e Venezia è bellissima ma non ci vivrei mai. Di sicuro è un prodotto che, volente o nolente, scatta una fotografia all’attuale scena comica italiana, mettendo a fuoco curiosità e interrogativi.

È un peccato, tuttavia, che Lillo per l’occasione abbia stemperato la sua debordante e surreale verve clownesca, assimilata in decenni di mestiere. Non gliene facciamo di certo una colpa. Siamo più preoccupati per gli altri, che dovrebbero adeguarsi a lui. Il metacinema, la satira, il carro delle maschere: é ancora questa la comicità di cui abbiamo bisogno, quasi fossimo dentro una nicchia dall’eterno revival in cui si celebrano i migliori anni dell’intellighenzia?

Tanto che, mentre scorrono i titoli di coda, accompagnati dagli immancabili bloopers (sì, fanno ridere, ma sono davvero necessari?), il dubbio è di aver assistito non tanto alla storia di Lillo nella parte di se stesso, stanco e preoccupato dell’ingombranza di Posaman, ma di aver partecipato a un censimento di boomers.

 

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