Squid Game                                                                     voto: 8

(Netflix)

 

CHI HA PAURA DEL CALAMARO CATTIVO?

Squid Game” è principalmente una lezione di storytelling, inteso come atto del narrare, affabulatorio mezzo di comunicazione che accentua la componente emotiva per raccontare una realtà in modo allegorico. Arrivando a una sintesi estrema, la serie coreana è un survival drama, imperniato sui meccanismi del reality show, nel quale affluiscono gli ingredienti di una fiaba tradizionale. L’ensemble confeziona una morale che agisce sia a livello esplicito sia nel sottinteso, nel suo allusivo rimando metaforico al funzionamento di un’intera società.

Di “Squid Game” si scrive e si discute con lo scopo di capire la motivazione di un successo mondiale così eterogeneo. Come per cercare un rebus da decriptare e una formula magica da riapplicare.

C’è chi rimane impressionato dalla violenza brutale, posizionandola in cima alle ragioni di questa attrazione morbosa per un prodotto in cui il gesto omicida è, per così dire, a misura di joystick, giustificabile solamente in un ecosistema da videogame. Altri invece preferiscono sottolineare la metafora di una società coreana e quindi – per un effetto di automatica propagazione – tutte le società classiste, basate sul capitalismo cinico e sfrenato. Sorvolando, in realtà, su alcune specificità della cultura coreana per anteporre un giudizio che finisce per essere il frutto di uno sguardo totalmente occidentale, tuttavia lecito e genuino.

C’è chi setaccia dettagli e simboli per offrire una lettura psicoanalitica: altri ancora si soffermano sul lato antropologico, catalogando le derive comportamentali di un gruppo di individui chiusi in cattività.

Tutto vero, opinabile, interessante e foriero di dibattiti infiniti. Ma la forza trainante di “Squid Game” è, secondo me, la trasparenza del racconto, la gerarchia solida e precisa dei ruoli, l’immediatezza iconografica, la facilità di accesso al testo filmico senza particolari scarti fra il segno e il significato. Non tanto cioè, quello che si racconta nella serie, ma il modo in cui viene raccontato.

E’ questo ad averne determinato il successo globale, che raramente arriva in modo accidentale; più spesso rispecchia un bisogno condiviso: l’interesse per un racconto di stampo fiabesco con alcuni dei suoi topos intramontabili: l’evoluzione dell’eroe, la dicotomia fra ricchezza e povertà, il conflitto tra superbia e umiltà; e ancora la presenza di un arbitro del destino che nel caso di “Squid Game” sono le regole del gioco. Il bosco –che nelle fiabe è sia regno del pericolo, sia obbligatorio rito di passaggio – è qui rappresentato dalla fortezza inespugnabile dove i 456 concorrenti accettano il rischio di essere uccisi a sangue freddo pur di uscire vincitori da questa simbolica foresta e tornare nella società che li ha espulsi con l’arma più potente che la stessa società pretende: la ricchezza. Non la spada magica del guerriero, non la saggezza del sapiente, ma il malloppo del nababbo.

Sposando l’opzione della metafora anticapitalistica, la violenza sanguinaria con cui i kapò mascherati uccidono i concorrenti che perdono il gioco può essere considerata come la messa in scena della violenza, altrettanto sanguinaria, che semina vittime fuori dal lager inespugnabile. Come in un caso di condensazione onirica, lo spargimento di sangue messo in scena nel bosco-fortezza finisce per farsi sintesi della violenza fisica e psicologica che, all’esterno, è solamente più diluita e avanza con tempistiche più lente e subdole. Medesimi sono, tuttavia, i martiri e l’epilogo. Anche fuori dalla fortezza è il corpo a rappresentare l’ipoteca e la merce di scambio. Medesima è, inoltre, la gerarchia degli assassini e la volontà di sopraffazione verso chi non ubbidisce e non produce a beneficio del lupo cattivo.

L’insistenza con cui il Frontman esige l’uguaglianza nello svolgimento dei giochi e la sorveglianza degli uomini armati a garanzia della regolarità degli stessi, condensano lo schema sommario della grande illusione vigente nel mondo fuori dal bosco, dove si vende l’utopia che lo stesso punto di partenza sia sinonimo di equità.  Beffarda poi è la regola che prevede l’interruzione del gioco qualora la maggioranza dei partecipanti decida di andarsene, se si considera il debito che ognuno di loro è costretto a estinguere nel mondo esterno. Un debito che significa, comunque, morte certa. Così come beffarda è l’idea che ciascuno sia davvero unico artefice del proprio destino, quando il gioco e le regole sono imposte da chi impugna la pistola.

All’esterno degli Squid Games – nel mondo reale –  c’è il lavoro. Nell’ambito specifico degli Squid Games c’è, appunto, il gioco. Entrambi detonatori di diseguaglianze. Ed entrambi generatori di alleanze e divisioni in fazioni nelle file dei concorrenti superstiti, sulla falsariga di quanto può avvenire in ogni team (aziendale, sociale, sportivo) tramite l’individuazione, di volta in volta, dell’anello debole e dell’anello forte. A fare da collante c’è l’istinto di sopravvivenza, la componente egoistica. A cui si sottraggono i due personaggi ‘buoni’ e forti: uno è il protagonista, che alla fine la spunta; l’altro è la ragazza introversa che viene dalla Corea del Nord, intenzionata a vincere per ricongiungersi con il fratellino. Per questo, a conti fatti, la violenza che in “Squid Game” giunge a un punto di saturazione, privandosi di ogni orpello romantico, finisce per annaspare a un livello più basso rispetto alla funzione catartica e alla rasserenante lezione morale, amplificata dai sentimentalismi familiari. L’eroe, durante il percorso, ha sviluppato un’etica e si erge a tragico antieroe buono. Tornato alla vita di tutti i giorni, rifiuta persino i benefici del montepremi mostruoso, continuando a vivere da povero. Un epilogo che scarica il peso di tutta la violenza mostrata, raschiandone via l’appeal.

In una serie interdisciplinare come “Squid Game”, questa e cento altre interpretazioni sono rese possibili dalla chiara suddivisione dei ruoli, dalla chiarezza del sottinteso, dall’immediatezza della fruizione. I colori, i numeri, le divise, le fisionomie dei volti non possono che rimandare a un unico segno inequivocabile. Con una sola eccezione – il numero 001 – che è appunto la normale, fisiologica eccezione alla regola. Oltre all’eroe che si evolve e si redime, troviamo il suo rivale che ne rappresenta il lato oscuro sin dall’infanzia. Non manca l’uomo anziano e saggio dispensatore di retoriche lezioni di vita, oltre al cattivo vile, forzuto e prepotente. Quest’ultimo è il tipico mostro accettabile dalla società classista: il pesce di media caratura che elimina i più deboli molto prima del traguardo, ignaro di essere anch’egli una pedina nella scacchiera. E poi c’è l’indagatore esterno che scopre il torbido schema segreto ma viene eliminato. A questo personaggio bisogna aggiungere i ricchi – descritti con abbondanza di stereotipi -, il medico che usa le sue nozioni per ingraziarsi gli scagnozzi armati, impegnati nella gestione di un orribile traffico di organi. Anche la nascita di sordide attività illegali fa parte degli effetti collaterali di ogni struttura fondata sulla disuguaglianza, che ne tollera l’esistenza come parte di uno schema più grande. La piramide dei personaggi sale fino alla rivelazione del grande manovratore, che spira in un sottofinale che cita a suo modo il cinema di Frank Capra. La vita è meravigliosa, nonostante tutto. Il diavolo muore e l’angelo prepara la sua vendetta.

Tre ulteriori ingredienti arricchiscono, inoltre, l’impasto narrativo di “Squid Game”, il suo essere elogio del narrare.

I personaggi che, nei momenti di pausa tra un gioco e l’altro, raccontano e si raccontano. Sono gli storytellers singoli dentro lo storytelling principale in un susseguirsi di ‘C’era una volta”. Ed è attraverso le loro parole che noi riusciamo a immaginare le coordinate del mondo ingiusto che prolifera fuori dal bosco e dentro il quale essi non vogliono rientrare.

L’altro elemento necessario al funzionamento della macchina narrativa è tuttavia lo spettatore stesso. Noi, con il nostro godimento, con la nostra malizia da testimoni privilegiati, indoviniamo e accettiamo la barbarie narrativa che prevede l’eliminazione dei personaggi dalla scena secondo un ordine logico e preciso. Ne siamo consapevoli in tempo reale. In una danza simmetrica con lo spietato cinismo classista, sappiamo chi dovrà essere sacrificato, perché così prevedono le regole della fiaba. E perché così va il mondo. Lo svolgimento narrativo di “Squid Game” è lineare e rassicurante. Come Cappuccetto Rosso o Star Wars. Lo è persino nel soddisfare l’aspettativa del finale aperto, coerente con la comprensibile conseguenza che prevede la ripetizione di una formula quando questa si è rivelata vincente. Se l’epicentro del mondo, fuori e dentro il bosco, è fondato sul denaro –  e se “Squid Game” è un esempio di storytelling –  come si può evitare il rilancio e la diffusione di un brand? Come non attendersi l’incremento del jackpot? La serie non può che omologarsi alle esigenze dell’industria economico-culturale che vuole stigmatizzare, dimostrandone il potere e la tesi fondante.

In ultimo, l’infanzia. Lo specifico ingrediente della ricetta di “Squid Game”, la scorciatoia mentale che dalla storia conduce al cuore vulnerabile dello spettatore, stregandolo. E’ l’infanzia, il più puro imprinting del nostro vissuto, ad essere il catalizzatore ipnotico di “Squid Game”. I giochi dell’infanzia che costituiscono un innocente elemento di aggregazione: da “1-2-3… stella” passando per il tiro alla fune, fino al gioco del calamaro che dà il titolo alla serie, E che appartiene nello specifico alla cultura coreana, ma che può essere sostituito con un gioco caro all’infanzia di ogni cultura. Questi giochi sono trasformati in competizioni mortali che sviliscono il ricordo e la narrazione del ricordo.

Noi raccontiamo soprattutto il passato, e di questo enorme fascicolo personale è l’infanzia il periodo che più romanziamo, spesso arrotandone le asperità. Seppure per alcuni possa essere stato un periodo problematico e povero, persino oscuro, è tipico perlustrare l’infanzia cercandone un ricordo che lo attesti come tempo dell’innocenza, l’area felice prima dell’ingresso nell’età adulta. Gli stessi personaggi fanno continuo riferimento all’infanzia e al passato, ne fantasticano la purezza, come per scavalcare i confini spaziali del bosco e l’arco temporale dell’esistenza adulta nella società crudele. Per tornare a un grado zero di vagheggiata felicità. Il lato più morboso dei ricchi di “Squid Game”, la loro inesorabile perfidia sta nel voler inquinare anche la percezione ludica e incontaminata di un periodo innocente, il nostro storytelling più prezioso, insanguinandone l’essenza per piegarlo agli stessi principi di diseguaglianza che regolano il mondo in cui loro banchettano. Per stravolgere l’epilogo di ogni fiaba e far vincere il lupo cattivo.

 

 

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