SKY + NETFLIX + LE PAGINE DEI GIORNALI: “THE STAIRCASE – UNA MORTE SOSPETTA” E’ UNA STORIA VERA CON DENTRO UN’INCHIESTA CON DENTRO LA STORIA DI UN’INCHIESTA, CON DENTRO UNA POLEMICA. PIU’ CHE UNA SERIE TV, UNA MATRIOSKA METATELEVISIVA
1 THE STAIRCASE, SERIE HBO VISIBILE SU SKY: UNA RECENSIONE INTERROTTA (perché ad oggi mancano ancora 4 episodi alla fine)
In otto episodi, che escono due alla volta come ai tempi della tv analogica, su Sky è possibile vedere The Staricase, la storia vera di un caso giudiziario e umano del 2001. Michael Peterson, scrittore di Durham, Nord Carolina, una sera del dicembre 2001 chiama il 911 per chiedere aiuto per la moglie caduta dalle scale e quasi morta e poi proprio morta: quando la solerte polizia americana arriva insieme all’inutile ambulanza, gli agenti decidono che quello non è il luogo di un incidente, ma una scena del delitto. Giudicando anche solo sommariamente lo stato di devastazione insanguinata del cadavere della donna, della base delle scale e dei pantaloni del marito, i poliziotti accusano Michael Peterson di omicidio. Inizia così la serie, e un andirivieni negli anni tra futuro e passato, che ricostruisce i fatti di questo caso che all’epoca destò moltissimo clamore. Tanto che una troupe di documentaristi francesi, tra cui il Premio Oscar Jean-Xavier de Lestrade, accorse a Durham ottenendo da Peterson il permesso di filmare tutto il procedimento giudiziario fino al processo.
Firmata da Antonio Campos, la serie segue dunque innanzi tutto gli eventi secondo la cronaca ‘in diretta’ che ne fece il documentario francese, ma inoltre essa stessa ricostruisce i fatti, guardandoli da molteplici punti di vista diversi: quello raccontato da Michael Peterson, quello dei suoi numerosi (5) figli e figliastri, quello della giuria, quello del brillante avvocato della difesa e dell’accanito procuratore, quello dello spettatore medio americano.
Un crescendo di tensione che val la pena di seguire senza informarsi prima sull’argomento, e sulla attuale condizione di Peterson: condannato, libero, condannato e poi appellandosi diventato libero? Colpevole, inspiegabile omicida premeditatore di una seconda moglie amatissima, omicida per caso e per rabbia, sfortunato con le coincidenze ai limiti del record, incompresa vittima del folle sistema giudiziario americano? Genio del male, abile mentitore, vedovo inconsolabile?
La serie HBO realizza un labirinto magico di tesi e controtesi, ricostruisce scenari contraddittori, dando ragione ad ogni personaggio che prende in considerazione per poi smentirlo il momento dopo: una girandola davvero mozzafiato per una serie crime di eccezionale impatto.
Un colpo di scena ‘pazzesco’ caratterizza la terza puntata, e imprime una svolta alle indagini che fa girare la testa a chi segue. Se la serie non fosse tratta da fatti veri, tutto sarebbe troppo: troppo complessa la storia familiare, troppi personaggi in scena, troppe coincidenze assurde per essere vere. Ma questo è quello che è successo, e la realtà supera la fantasia come nel trito modo di dire, che si dimostra vero una volta di più.
LA FORZA DELLA SCENEGGIATURA, CHE SI AVVALE DELLA REALTA’ COME COAUTORE, E’ AMPLIFICATA DALL’ECCEZIONALE BRAVURA DEL CAST.
I nostri preferiti:
Colin Firth presta la sua espressione che ha sempre qualcosa della vittima a un personaggio che risulta terribilmente ambiguo, col coraggio del grande interprete che non teme di calarsi nei panni di un uomo che, innocente o colpevole che sia, risulta per molti versi un vero stronzo.
Toni Colette: con Kathleen Peterson la versatile attrice inglese tratteggia un altro dei suoi personaggi a triplo strato, colorando una donna complessa e forte, non esente da difetti ma incredibilmente viva, con tutto che è già morta nella prima scena.
Michael Stuhlbarg: (il saggio padre di “Chiamami col tuo nome”) dà vita a un avvocato della difesa diverso dai soliti lawyer americani, allontanandosi dall’algida perfezione della retorica forense e avvicinandosi molto al vero David Rudolf, genio del dibattimento sì, ma col cuore molto umano.
Juliette Binoche: ovviamente bellissima anche invecchiata e con la parrucca bianca, la diva francese regala la sua aura raffinata a un personaggio importante che non possiamo descrivere per non cadere nello spoiler, titolare di una lunga serie di frasi ad effetto che hanno il compito di sintetizzare la filosofia che sottende tutta l’operazione.
Sophie Turner: tolti i costumi della Sansa del Trono di Spade, la giovane attrice inglese interpreta una dei figli di Michael, ed risulta magnetica nel mostrare come la fede incrollabile in un padre venga erosa e massacrata sotto i colpi incessanti delle bugie che pian piano vengono a galla.
Giudizio temporaneo sulla serie: voto 8 in attesa del finale, visione consigliatissima a chi apprezzi i meandri delle inchieste giudiziarie e della mente umana, sconsigliato a puritani e estimatori della teoria ‘o bianco o nero’. Ai quali ultimi si consiglia piuttosto:
2 CONSIGLIO DI VISIONE: “THE STAIRCASE – A SUSPICION”, SU NETFLIX IL DOCUMENTARIO ORIGINALE DI JEAN-XAVIER DE LESTRADE SUL CASO ‘US OF AMERICA VERSUS MICHAEL PETERSON’
L’apprezzatissimo documentario girato in contemporanea coi fatti del 2001, che seguì Peterson e la sua famiglia ai piedi della famigerata scala in cui morì Kathleen e fin dentro l’aula del tribunale, aveva lo scopo dichiarato di ‘immergere lo spettatore europeo nel complicato sistema giudiziario americano, più che di stabilire se l’imputato Michael Peterson fosse o meno realmente colpevole di omicidio’. Il claim del documentario è: DID HE DO IT? Il punto di domanda chiarisce che niente verrà chiarito: i giornalisti non vogliono dire e nemmeno sapere se Peterson abbia ucciso, coperto un omicidio, sia stato vittima di un incidente assurdo. Il loro scopo è seguire la sua vicenda giudiziaria, nella sua ineluttabilità kafkiana, non giudicare la sua responsabilità. Vincitore di numerosi premi, il documentario è stato apprezzato proprio per la rara attenzione a mantenere una neutralità nel giudizio dei fatti che andavano svolgendosi sotto l’occhio implacabile delle telecamere: fatti, solo fatti, nient’altro che fatti.
Da qui, esattamente da questo punto, nasce la polemica, che tuttora va avanti.
3 LA POLEMICA
Il regista Jean-Xavier de Lestrade, la curatrice Sophie Brunet, e poi anche la producer americana Allison Luchack e il montatore Scott Stevenson accusano Campos e la HBO di averli traditi, disattendendo la fiducia accordata loro con l’accesso libero ai materiali utilizzati per il documentario. Nelle puntate della serie HBO i documentaristi si sono visti dipingere come ‘amici’ di Peterson, fautori emotivi del partito dell’innocenza dell’imputato, e questo ha sconvolto e offeso il loro senso etico. In sostanza de Lestrade accusa Campos di aver aggiustato le cose per mostrare i francesi parteggiare per Michael, mentre lo scopo finale del documentario è sempre stato mostrare i limiti e le pecche del sistema giudiziario USA, non stabilire l’innocenza o colpevolezza dell’imputato. Negando di aver mai chiesto a Peterson di riformulare una frase per la telecamera o di cambiare un atteggiamento per apparire più simpatico, de Lestrade difende l’integrità professionale e morale del suo lavoro, che ha come fine ultimo rappresentare la realtà dei fatti e niente altro.
Ma invece il lavoro del regista di una serie di finzione (Campos per ora non replica) è strutturalmente diverso: forzare la verità per dimostrare una tesi non è un difetto, può essere il fondamento del processo creativo. Dichiarato, oltretutto: la serie è ISPIRATA alla storia del processo di Michael Peterson e al documentario che se ne fece durante, non E’ quella storia. Ci sarebbero due documentari e non un doc e una fiction, se il regista Campos non avesse scelto di prendere parte, di avere una sua idea delle cose accadute e dei motivi sottesi agli eventi, di accollarsi la responsabilità di creare personaggi portatori si significati simbolici più alti dei fatti stessi. Per vedere la cruda cronaca si guarderà dunque il documentario di Netflix, mentre per dilettarsi nelle ipotesi e addentrarsi nei meandri della coscienza di un uomo, si opterà per la bellissima, partigiana, paracula serie HBO. Perché lo spettatore non è un fesso, in fondo, e chi guarda sa bene che lo scopo del giornalista è (o dovrebbe essere) l’amore per la verità, mentre un regista di fiction può rivendicare il diritto dello storytelling di assassinare la cronaca in nome dell’arte.