Sul catalogo di Netflix, “What Did Jack Do?”,  un cortometraggio girato da David Lynch nel 2016 . Straniante come un’apparizione soprannaturale, rilancia e riassume la poetica visionaria dell’autore di “Twin Peaks”.

Un cortometraggio di 17 minuti, in bianco e nero, ambientato in una location spoglia, con una fotografia consunta, in cui un detective mette sotto torchio una scimmia accusata di omicidio. Sullo sfondo rumori di treni in partenza. L’inquadratura è scandita da intermittenze. E fra le righe del dialogo surreale emerge un immaginario dai nitidi contorni noir che lascia percepire le vibrazioni di un universo occulto e freak.

Se uno si chiama David Lynch, con un prodotto del genere ottiene due risultati. Il primo è suscitare una curiosità e un clamore che qualsiasi altro regista non avrebbe suscitato. Inoltre, ed è questa una prerogativa dei grandissimi cineasti: Lynch riesce in una manciata di minuti ad avviare un’indagine sul suo stesso cinema, sulla propria poetica, mettendo sul piatto i meccanismi della creatività, stringendo le viti e i bulloni di un immaginario unico, creato nel corso di un’intera carriera. Un grande autore ragiona sempre sul suo cinema, lo riassume, lo decostruisce e lo nutre di altre suggestioni, lo carica di ulteriori riflessi.

E il cinema di David Lynch è una costante tentativo di normalizzazione, all’interno del testo filmico, di uno o più tasselli disturbanti e caotici. Lynch ha un’abilità fuori dal comune di rendere perturbante ogni elemento della grammatica cinematografica.

In “What Did Jack Do?” non è solamente la presenza di una scimmia parlante che già di per sé destabilizza. Una volta che la sospensione dell’incredulità viene innescata, infatti, anche il dialogo con il detective accentua il carattere visionario dell’insieme. Nel botta e risposta i collegamenti logici non sono sempre lineari, ma risultano vagamente disarticolati. Essi acquistano un senso esclusivamente nel contesto grottesco che il regista riesce a creare con due tocchi. Ma anche nel contesto in questione continuano a disorientare; sono come delle fessure verso altre porzioni di un immaginario che è paragonabile a una serie infinita di porte misteriose che si affacciano su un corridoio onirico interminabile.

Di base c’è un’idea di cinema come arte figurativa sperimentale in cui non tutto deve essere spiegato, in cui i rimandi non necessitano di una spiegazione esaustiva o simmetrica. Il loro valore è l’atto stesso di rimandare verso un altrove.

Jack, la scimmia parlante, è come il nano di Twin Peaks o come mille altri arcani partoriti nel reparto di ostetricia lynchiano. In sospeso fra fantasia e inganno, fra depistaggio visivo e stritolamento della concezione ordinaria della fruizione cinematografica. O, a volte, si tratta di invenzioni fini a se stesse, come fili elettrici che non chiudono alcun circuito. La forza del suo cinema è introdurre significanti e poi lasciarli agire, affinché trovino da soli la propria strada, il proprio senso.

 

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