DALLA COMMEDIA DELL’ARTE AL REALITY SHOW; DAL CRIME MOVIE AL DRAMMA PROCESSUALE. LA MAGNIFICA DOCUSERIE SU WANNA MARCHI HA LA STRUTTURA COMPOSITA DELLE FICTION PIÙ INCALZANTI, CESELLATA AL MILLIMETRO INTORNO A UN SURPLUS DI GENERI. E OLTRE A RIPORTARE AL CENTRO DELLA SCENA L’ISTINTO, L’INCOSCIENZA E LA FACCIA TOSTA DI UN PERSONAGGIO INSUPERABILE, HA IL MERITO DI TIRARE FUORI DA UNA REMOTA CAMERA OSCURA LA GIGANTOGRAFIA DI UN’ITALIA CHE FORSE NON C’È PIÙ. MA NON NE SIAMO COSÌ SICURI.

WANNA                                                                         voto 8

(Netflix)

L’Italia televisiva dei primi anni 80, quando le emittenti private nascevano a grappoli e proliferavano in ogni angolo dello Stivale, ricorda la piazza del Medioevo, invasa da ciarlatani e imbonitori, furbi e rampanti, a caccia degli strati più ingenui del popolo: erano incantatori di serpenti per vocazione, saltimbanchi che improvvisavano acrobazie, giochi di parole e allusioni volgari ai più bassi istinti, con lo scopo di vendere intrugli e pozioni magiche ai più creduloni, attratti e raggirati da grezze recite carnascialesche. Erano attori ignari di essere tali, agli albori della Commedia dell’Arte, che avrebbero stravolto il concetto stesso di teatro: dal copione alla recitazione, dallo spazio scenico fino alla fruizione degli spettatori.

In quell’Italia degli anni 80, già mezza avviluppata dalle spire del Biscione, con l’affaccio su un capitalismo zotico e ancora disorganico, la televisione cominciava a sdoganare piccoli divi catodici, sparpagliati nei palinsesti notturni, rinchiusi in studi televisivi che erano bugigattoli cheap illuminati da luci sparate, bazar rustici che esponevano cineserie prima che la parola cineseria fosse coniata, caldeggiandone l’acquisto fra ipnotici numeri di telefono in sovraimpressione e sgarbati giuramenti di offerte irrinunciabili.

 

 

 

Comincia passando al setaccio quei minuscoli laboratori trash, la docuserie “Wanna”, prodotta dalla Fremantle Italia, scritta da Alessandro Garramone insieme a Davide Bandiera, per la regia di Nicola Prosatore. Comincia, quindi, introducendo il milieu che favorì l’affioramento di quel fenomeno televisivo chiamato Wanna Marchi e della sua irruente strategia di marketing, istigatrice di rimorsi e incertezze psicologiche. E si conclude, dopo un lungo balletto di flashback, nel 2006, quando sono passati quasi 30 anni di storia televisiva ma sembrano secoli.

Nel 2006 “Il Grande Fratello” viaggia a vele spiegate di edizione in edizione, gli spettatori hanno raggiunto un compromesso estetico con i talk show, diventati inguardabili combattimenti tra galli e volponi dell’audience; inoltre solamente un click del telecomando ci separa dalla sovraesposizione mediatica del dolore e della lacrima facile. Nella Tv del nuovo millennio lo spettatore, poi, ci è entrato in pianta stabile, protagonista, comprimario o semplice oggetto scenico passivo di corride, quiz e claque. Ma soprattutto di reality.

Nel 2006 Wanna Marchi, sua figlia Stefania e il marito Francesco Campana entrano in tribunale con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla truffa. Hanno ingannato, minacciato, estorto, strozzato le casalinghe con il cordone della borsa di famiglia. Hanno modificato il loro core business, precedentemente incentrato su alghe dimagranti e scioglipancia miracolosi, per vendere numeri fortunati, letture delle carte e talismani anti malocchio. Il nulla. Vendevano il nulla. Tuttavia, alla vigilia del processo, non c’è ombra di consapevolezza e pentimento. Le prove sono schiaccianti ma Wanna e la figlia non chiedono il patteggiamento. Chiedono invece le telecamere. Sfidano al giustizia italiana sperando nello strumento mediatico che conoscono a menadito, la pistola fumante della loro ricchezza.

Alla sbarra sfilano le vittime, la ‘carne viva’ di un paese che brulica di debolezze e superstizioni, che ha buttato cifre imbarazzanti nella cassaforte senza fondo della regina delle televendite. E il dramma processuale assume, appunto, la fisionomia di un reality show.

La metamorfosi è completa. Perché l’incedere narrativo delle quattro puntate dedicate a Wanna Marchi, è un dipinto da scrutare con attenzione per leggerci dentro la trasformazione dell’Italia televisiva e non solo. L’evoluzione del rapporto tra mezzo mediatico e dei suoi fruitori. Come fu per il teatro.

Se si uniscono i puntini nascosti dietro gli occhi spiritati che ricordano la Clara Calamai di “Profondo Rosso”, dietro lo stesso ego squilibrato di Gloria Swanson in “Viale del Tramonto”, la docuserie narra lo stordimento diffuso, il consumismo catodico, l’attrazione verso un modello di bellezza vago, da ottenere con metodi rudimentali, a 300.000 lire a vasetto. E ci si accorge di quanto la Marchi sia stata un’antesignana della violazione della privacy sulla frontiera di un Far West dove al posto dei cavalli si rubavano già i dati sensibili.

Lo showrunner della docuserie in quattro puntate, Alessandro Garramone, intervistato da “La Stampa” dice: In due ore Wanna Marchi parlava appena 10 minuti del prodotto che vendeva, per un’ora e 50 minuti faceva storie instagram.

Da self-made woman di origine contadina che si arricchisce creando un rapporto simbiotico con massaie, vedove, e uomini panciuti, la Marchi reagisce a declini e bancarotte entrando in un territorio proibito. Quando, cioè, smette di promuovere creme e comincia a vendere un prodotto inesistente: la fortuna, sotto forma di numeri del lotto e rituali esotici assoldando il ‘maestro di vita’ brasiliano Mario Pacheco do Nascimiento, nipote e seguace di una sacerdotessa del candomblé.

Il ruolo del maestro è tutto nella testa di chi chiamava” dice, difendendosi e arcuando il suo accento romagnolo, Wanna Marchi. Coerente, del resto, con il suo punto di vista, fondato sulla regola d’oro che “I coglioni vanno inculati, cazzo!”. “E se per 20 anni gli uomini continuavano ad acquistare lo scioglipancia, dove era la truffa? Evidentemente funzionava”.

La non ammissione di colpa, nemmeno dopo una condanna a 6 anni di prigione, fa parte della coerenza della venditrice ostinata, che ha sempre venduto in primis se stessa.  E non si possono certo svelare i difetti del prodotto che si vuole vendere.

Avvinghiata visceralmente alla madre, l’irriducibile e ubbidiente figlia Stefania si sintonizza sulla stessa lunghezza d’onda. Il rapporto tra le due donne, ambiguo e impenetrabile, è un’altra tasca imbastita sul tessuto di una docuserie che trapassa, con l’ago e il filo di numerosi generi, la stoffa di una storia verissima.

Una storia di ascesa e caduta, di riscatto, fallimento e resurrezione. Fino alla punizione finale, che si compie con la più perfetta delle nemesi. Il tassello mancante è la redenzione del cattivo. Se cercate lo scarto che separa la fiction dalla cronaca, lo trovate solitamente proprio lì. Nella negazione del risultato conclusivo da parte del personaggio negativo.

Nel corso delle quattro puntate, la vicenda Marchi si fa un giro completo nel Crime e nella cronaca nera, tra incendi dolosi, intimidazioni telefoniche, imprenditori massoni. Estrae dal cilindro – come se leggessimo un romanzo polifonico di Don De Lillo – nomi forti dell’immaginario: dall’Amministratore Delegato di Publitalia Marcello Dell’Utri al boss della Camorra Raffaele Cutolo. Assistiamo a una parata di volti invecchiati, incollati come figurine dentro un album che ripercorre un tracciato recentissimo, un’epopea di reperti che la memoria ha solamente sfumato.

Certi particolari, poi, arrivano come scintille di un fuoco mai spento. Certa iconografia deteriorata dal tempo e non più riciclabile neppure dal ‘vintage-pija-tutto’ ha la forza motrice dei dejavu: le apparizioni con Maurizio Costanzo e Piero Chiambretti, i computer voluminosi, le tariffe telefoniche (2500 lire al minuto + iva) degli 144, le acconciature impennate. Si rimane incantati dalla perlustrazione minuziosa dei recessi dell’etere.

E ci si domanda quando è che abbiamo lasciato campo libero al trash. Come sia stato possibile che due donne percepite come imbroglione siano state in grado di costruire un impero.

Tutto sta forse nel processo di fidelizzazione del mezzo televisivo di quegli anni lì. Una cassa di risonanza, usata con mestiere, permette infatti di insaponare e risciacquare anche l’immagine più compromessa. La riproposizione di un soggetto, persino dalla provata indole truffaldina, ne rinnova gradualmente l’immagine. La reiterazione smacchia. Tanto che, se oggi una Wanna Marchi a caso ricominciasse a televendere il rito del corallo adattando la sua tattica alle nuove tecnologie, non siamo proprio così sicuri che nessuno ci cascherebbe. Un mezzo mediatico usato abilmente può essere più efficace di una lavatrice, e il senso critico di chi lo fruisce cambia costantemente unità di misura.

“Wanna” è un passaggio obbligato per capire uno ieri di cui non ci siamo del tutto sbarazzati, oltre che un viaggio ricco di curiosità sulle devianze a cui conduce la superbia. In ultimo, è un appuntamento immancabile per rendersi conto dei posti più lontani e grotteschi che l’entertainment può raggiungere. Come il demenziale singolo “D’accordo”, inciso da Wanna & the Pommodores nel 1988.

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