Con “Avatar 2 – La via dell’acqua” su Disney + arriva in tv il film che davvero si dovrebbe guardare solo al cinema: una riflessione sulla meraviglia, le pretese e l’irripetibilità della prima volta
Nella realtà, dal primo film di James Cameron ambientato sul meraviglioso mondo di Pandora abitato da creature blu che conoscono il segreto per fondersi con la natura e contenere l’usura del tempo, sono passati 13 anni. Tredici anni dai tre Oscar, tredici anni dai 2,92 miliardi di dollari di incasso, tredici anni dalla scoperta della meraviglia restituita da effetti speciali innovativi, tredici anni dalla più eccezionale visione panoramica in 3D stereoscopico in cui per la prima volta attori reali ‘recitavano’ dando vita a alter ego virtuali col sistema hitech FPR (Facial Performance Replacement). Tredici anni di attesa, con i tantissimi fan che si erano emozionati commossi meravigliati sul mondo utopico di Pandora che non vedevano l’ora di tornarci e trepidavano nell’attesa. Tanti anni, forse troppi, perché se è vero che l’attesa aumenta il desiderio, è vero anche che nell’era della gratificazione istantanea e delle serie tv consumate nel giro di un fine settimana il desiderio non è più molto allenato a crescere aspettando, e invece di aumentare si distrae e si spegne di botto. Quindi è anche vero che in tantissimi sono andati al cinema a vedere “Avatar 2 – La via dell’acqua”, rendendolo il terzo film per incassi della storia (esatto, la prima e la terza posizione sono occupate da film di James Cameron, e anche la quarta, se è per questo, con Titanic), ma è anche vero che, secondo il nostro sindacabile giudizio, in moltissimi non sono riusciti a ricreare esattamente quella meraviglia che li aveva portati fin lì.
Soprattutto non ci riescono coloro che il film lo stanno guardando in televisione, affrontando dal proprio divano e senza il supporto dei mezzi immersivi della sala le infinite, smisurate tre ore e dodici minuti della visione. Ma come mai la meraviglia stenta a riprodursi?
PRIMO: due dimensioni sono poche
Primo perché senza la possibilità di immergersi nell’esperienza visiva che dà il 3D al cinema, le tre ore e dodici minuti della visione appaiono, appunto, smisurate e a tratti velleitarie. Minuti interminabili di corse, tuffi, voli e fusione con una natura bidimensionale, colorata sì ma ‘veramente fittizia’.
SECONDO: la trama non (si) regge
Secondo perché gli a questo punto famosi tredici anni hanno cancellato la memoria di nomi, situazioni e sviluppi della trama, quindi la prima trance del film si perde tutta in un faticoso ricostruire chi era questo ma non era morto ma come mai ora è blu se prima era rosa?
E la trama, in effetti, è complicatissima. Un breve sunto non dà nemmeno l’idea del fitto intrico di cose da sapere e mandare a mente, ma ci proviamo: da quando gli uomini del cielo, cioè i terrestri o per meglio dire un gruppo di soldati e scienziati americani piuttosto infamoni, sono stati sconfitti dai nativi pandoriani Na’vi comandati da Jack Sully, marine umano paralizzato tornato a nuova vita nel suo avatar locale, sono passati su Pandora 15 meravigliosi anni di pace e prosperità. Jack vive con la sua Neytiri e i loro figli, tre naturali (sul come un avatar e una nativa locale in carne blu ed ossa possano aver concepito si mantiene uno stretto riserbo) e due adottivi: una è la figlia Na’vi della defunta dottoressa Grace (studiosa di Pandora uccisa negli scontri e il cui avatar galleggia in una teca) e uno è un giovane umano, Spider, figlio del defunto colonnello Quaritch, il vero villain del primo film. Spider è l’unico attore che recita con il suo vero volto e la sua statura, finendo paradossalmente per sembrare lui quello strano, in un mondo popolato di giganti blu con la coda che è una presa per interconnettersi con la natura circostante. La pace e la serenità però stanno per finire, dato che gli uomini del cielo vogliono provare a riconquistare Pandora essendo finita l’aria a disposizione sulla Terra, ed è proprio l’odioso Quaritch a guidare la missione, redivivo in un avatar Na’vi con tanto di pantaloni mimetici, ma ovviamente blu. Il colonnello soprattutto vuol vendicarsi di Jake, il quale ha come obiettivo salvare la sua famiglia allargata e inizialmente si rifiuta di combattere, andando a nascondersi in un altro punto del pianeta, dove vivono in simbiosi col mare i Metkayina, popolo pacifico simile ai Na’vi ma più sull’azzurro chiaro. I resilienti Sully imparano a vivere con i Metkayina, e a cavalcare animali marini invece che pterodattili volanti, e questo accade in un lungo, calligrafico, sfinente segmento di film, in cui i veri protagonisti sono i giovani, i ragazzi locali e i ragazzi Sully che stentano ad adattarsi. Ma comunque nascondersi non serve a niente: il colonnello e i suoi scoprono dove si trovano i nemici e assaltano la comunità, costringendo Sully e i suoi a combattere per la vita. Da qui la trama non interessa più, e rimane solo battaglia, battaglia marina, conflitto subacqueo, salvataggi dell’ultimo momento, morti ingiuste e impreviste.
Una trama involuta e tutta da spiegare, un infinito intermezzo pacifico in cui fondamentalmente non si fa altro che nuotare, una battaglia finale che ti fa sperare che a un certo punto sparino a te: questa l’impressione di “Avatar 2” vista sulla televisione di casa.
TERZO: Cameron dà ripetizioni
Il terzo motivo per cui “Avatar 2” non è coinvolgente come il primo è la smaccata retorica che Cameron non è riuscito a evitare nei – stringati e pochissimi – dialoghi. Chi invade una terra non sua è cattivo, e fino a qui ci siamo. L’amore per l’ambiente che ci circonda ci salverebbe dalla distruzione, e fino a qui c’eravamo anche 13 anni fa. Ma soprattutto, nel più classico dei modi americani di concepire i valori, quello che muove l’eroe è dichiaratamente sempre l’amore per la famiglia, che ancorché allargata è sempre il nucleo tradizionale il cui il padre protegge i figli che si farebbero ammazzare per amor suo. Che non è un disvalore, naturalmente, ma all’interno di un film così moderno e avveniristico ci si poteva aspettare qualcosa di meno conforme e più convincente.
QUARTO: senza stupore non c’è meraviglia
Il quarto e più importante motivo per cui la meraviglia non si ricrea è che, effettivamente, la meraviglia non si può ricreare. La meraviglia è data dallo stupore, dalla sorpresa e dall’emozione del nuovo: tutte cose che in un sequel non possono esserci. Parafrasando Cesare Pavese, l’unica gioia al mondo è l’emozione della prima volta, gioia che sfortunatamente è fisiologicamente impossibile ricreare.
Come la straordinaria trovata di far recitare attori veri dentro la ‘maschera’ dell’avatar, che nel primo film era supportata dal confronto con l’attore in carne ed ossa che entrava e usciva dal suo corpo blu (‘guarda, ha la stessa espressione di Sigourney Weaver ma senza il naso!’) e in questo invece fa dimenticare chi ci sia dietro l’alter ego blu, rafforzando l’impressione di star guardando un cartone animato (di grandissimo livello ma sempre cartone animato). O come le infinite corse sotto l’acqua della parte centrale del film, che sono immaginarie ma sembrano vere, e ti fanno pensare che allora sarebbe meglio guardare uno degli splendidi documentari naturalistici di Sir Richard Attenborough, in cui gli scenari sembrano immaginari e invece sono veri.
In conclusione: la retorica di stampo pedagogico, la massiccia presenza di adolescenti a tinte cilestrine nell’azione, le scorrazzate sottomarine senza aver aspettato tre ore dopo aver mangiato, la scarsezza di profondità dei personaggi e delle loro interazioni fanno di “Avatar 2” una specie di raffinato e lunghissimo film per bambini, dove la meraviglia vorrebbe essere ricreata tramite accumulo di immagini ma finisce per essere appiattita in una ripetitività ai limiti dell’ossessivo, che sfocia alla fine nella noia, corroborata da una durata mostruosamente lunga. Finire un film e pensare a quali scene erano di troppo e a come si poteva tagliare almeno un’ora, in effetti, non risulta una recensione che si possa definire positiva.