Questo mondo non mi renderà cattivo                                                  voto: 7,5

(Netflix)

Ogni volta che l’Armadillo, la coscienza scafata di Zero, irrompe in scena per mettere un ordine e un punto alle titubanze del protagonista, mi viene in mente la sequenza del Toga Party in “Animal House”, quando John Belushi sta scendendo le scale e sfascia contro il muro la chitarra del tizio che sta strimpellando una sdolcinata canzone d’amore. Nel sovversivo film demenziale di John Landis, Belushi è la dirompente pulsione fisica che si abbatte come una ruspa sulle regole arrugginite del college movie. Nella poetica di Zero Calcare, Armadillo ricopre il ruolo di demolitore del pensiero retorico e di ogni atteggiamento ‘cringe’, come si usa dire adesso. Il comico non ammette melensaggini, dall’Aretino a Pirandello, dal demenziale al politically incorrect. L’Armadillo fa la guardia, riportando in vita il buon senso da animale di periferia che rischia di essere addomesticato dalla frusta del luogo comune imbarazzante.

Che poi, pure nella tragedia, uno la dovrebbe mantene’ un po’ de compostezza” dice l’Armadillo a Zero alla vigilia dello scontro fisico coi nazisti (non fascisti, ma nazisti, l’ultimo baluardo che ancora non trova spazio nel mercato democratico). Essendo la tragedia il rovescio della medaglia della commedia, la regola è aurea e valida per entrambi i macrogeneri. Il ‘cringe’ è la criptonite della comicità, anzi l’accollo, e va sfasciato sul nascere, come la chitarra di “Animal House”.

Specialmente quando si raccontano le vicende di un giovane Holden di borgata (come già accennavamo nella RECENSIONE DI “STRAPPARE LUNGO I BORDI), che dopo aver fallito una prima volta, non intercettando il desiderio suicida dell’amica Alice, ora vorrebbe fare da ‘acchiappatore nella segale’ con il redivivo Cesare, uscito dalla comunità per tossicodipendenti e reclutato dai nazisti di quartiere. Senza tenere conto di “Quanto è poco elegante anda’ a spiega’ come se campa a chi c’ha dumila cazzi che te ormai nun c’hai più”, incarnando il più sgradevole arcano dei tarocchi: “Er maestrino de stocazzo”.

La messa in scena del dialogo interiore con l’Armadillo è una delle forze motrici della potente macchina da guerra di Zero Calcare, che avanza accumulando digressioni e disquisizioni pop, pungolandoci con lucide paranoie e un arsenale di riflessioni lapidarie, accentuate dallo stile rapido e irriverente che sguscia acrobatico sulle tavole (animate) con malinconica ferocia. Con il rischio calcolato che molti dettagli all’interno di ogni disegno si perdano.

È indubbio che il dialetto romano (non il romanesco da stornelli, di Rugantino o quello caricaturizzato, male, fuori dal GRA,) costituisca la peculiarità imprescindibile delle opere di Zero Calcare. Si intende il ‘romanaccio’ verace, di borgata, intriso di un’ironia telegrafica con le sue espressioni gergali iperboliche, drastiche come verdetti inappellabili, che incastonano con precisione millimetrica dettagli, tipi e situazioni. E valorizzano l’inventiva strabordante di Zero Calcare, oltre a mantenere costante la vibrazione incendiaria che serpeggia nell’incedere del racconto. Per chi è nato e cresciuto nelle zone della Capitale parecchio distanti dalle Mura Aureliane, l’opera di Zero Calcare rappresenta una sorta di ricompensa identitaria. Il dialetto romano tendente al greve colpisce, scolpisce e cesella in un baleno. Questione di lessico, inflessione e indolenza incarnita. Di un estro per la battuta che non è replicabile altrove. Ed è molto probabile che chi il dialetto romano ruvido e volgare lo porta a tracolla tutti i giorni, si diverta di più. Perché l’utilizzo quotidiano, il pensare direttamente in gergo rappresenta un’autentica ed esclusiva visione del mondo.

Zero Calcare si rivolge a un pubblico specifico (magari gli stessi che da ‘pischelli’ si vestivano come ‘cercatori di schiaffi col lanternino’ oppure a chi ormai si è imborghesito da far schifo e piange guardando “Grey’s Anatomy”); una specie di comunità ideale, lo zoccolo duro che si stringe intorno a un conflitto spinoso: il rifiuto di una posizione estrema e netta, il rigetto di una risposta semplice a domande complesse, con il terrore che un tale atteggiamento attendista significhi galleggiare in eterno nel girone degli ignavi. L’alternativa è il raccapricciante spiegone pseudo accademico, che nell’epoca attuale svilisce pure la più ragionevole delle opinioni. Lo spiegone che sarebbe meglio custodire nel dietro le quinte (“der cazzo che ce ne frega”) o da farci un post su Facebook così se lo leggono tra vecchi.

Se è vero che esiste una “linea sottile che divide la suocera dall’infame”, è altrettanto plausibile che esista una linea sottile tra l’autodenuncia e l’autogiustificazione. L’allarme rosso dell’effetto bolla, tipico di tutti gli zoccoli duri e delle tifoserie che parlano lo stesso linguaggio e condividono la medesima geopolitica del quotidiano. Con le sue storie e dissertazioni, Zero Calcare percorre proprio quel solco lì, interrogandosi in prima persona, in quanto appartenente ad essa, sui limiti di una fetta di generazione che forse non sa davvero un cazzo della vita ma può continuare a sentirsi intelligente, dipingendo un mondo giusto comodamente stravaccato sul divano.

Il conflitto non è solamente quello personale di Zero Calcare, la sua paura che il successo lo abbia destituito dal ruolo di faro del pensiero integro e risoluto (che oltre ad Armadillo, viene sviscerato da Sarah e da Er Secco). Il timore si estende alla parabola discendente degli ex ribelli di area progressista, ormai sedotti dalle sirene del nazional-popolare e del politicamente corretto, acquattati in un luogo confortevole (la bolla) dove si sgranocchia il ricamo sarcastico e metalinguistico, si mastica la citazione scacciapensieri e si razionalizza l’ignavia.

Come Re Carlo che “pe’ dasse un tono fa finta de sapè che succede nelle miniere der Galles”. O peggio ancora come le giraffe a cui è venuto il collo lungo, perché hanno dovuto raggiungere i frutti sui rami più alti della foresta pluviale di Capalbio.

 

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