VI PARLIAMO DI “BILL BURR: LIVE AT RED ROCKS”. SU NETFLIX, L’ULTIMO SPECIALE DEL SAGACE E BRUTALE COMEDIAN BOSTONIANO. 80 MINUTI CHE PASSANO AL SETACCIO IL MONDO PRE E POST-PANDEMICO. UN RITORNO ATTESO DAI SUOI TIFOSI INCALLITI, UN APPUNTAMENTO CONSIGLIATISSIMO PER CHI AMA LA STAND-UP COMEDY.

 

BILL BURR: LIVE AT RED ROCKS                                                                        VOTO 8

(Netflix)

Se Dave Chappelle (QUI la nostra recensione di THE CLOSER) è un maestro di vita, il guru scafato che viene dal ghetto, e se Ricky Gervais (cercatelo sul nostro sito, ne parliamo in vari articoli) va considerato uno dei migliori pensatori del nuovo millennio, con la sua arguta cattiveria british, che giudizio possiamo dare di Bill Burr?

Per chi scrive è semplicemente il migliore, tanto da arrivare a cercare le sue pepite d’oro di comicità fin nelle profondità del web, con la famelica necessità di ascoltare le sue osservazioni sui paradossi del periodo storico corrente e ristabilire un contatto accettabile con il mondo là fuori e anche con quello qua dentro, dove i dubbi e i ragionamenti hanno bisogno di un’antenna per risintonizzarsi periodicamente su un’adeguata lunghezza d’onda.

Bostoniano, cattolico ma del versante anticlericale non praticante, fustigatore del politically correct e degli ismi, appassionato di sport, collerico e beffardo, Burr mette sul lettino della stand-up comedy un mondo con evidenti problemi posturali, cercando di suggerire implicitamente gli esercizi per rimetterlo in asse.

Come?  Di solito Bill Burr parte da una verità ampiamente condivisa, tanto reiterata da essere ormai diventata omologata, per poi frantumarla attraverso la dialettica, riuscendo nel miracolo artistico di farti divertire e ragionare, masticando amaro e ridendo a crepapelle.

A differenza di molti altri comedian, Bill Burr ci mette del suo, scava nella propria vita privata, torna indietro nel tempo, alla genesi della sua proverbiale irascibilità, arricchendo il racconto di quei dettagli che, sì e no, riusciresti a malapena a raccontare al tuo psicanalista.

La spinta viene da una rabbiosa amarezza di fondo verso i cortocircuiti generati dalle nuove tendenze di un sistema sociale caotico, che sembrano nate ignorando un passato tutt’altro che remoto. Era lì fino a poco fa. Un po’ più lento e meno tecnologico. Non migliore, ma con un caos più sopportabile. Come se avessimo deciso di cavalcare una rivoluzione senza alcuna base solida su cui appoggiarci. A meno di non considerare l’ipocrisia e lo snobismo delle basi solide.

I bersagli? In generale, vivisezionando i suoi spettacoli e andando oltre “Live at Red Rocks”, Bill Burr spara a zero sul mito dell’uomo macho, fa a pezzi le gold-diggers (le donne che sposano i ricchi mirando al loro patrimonio), le pretese contraddittorie di omosessuali e persone transgender. Si va avanti con le dinamiche di coppia, specie le coppie miste essendo lui sposato con una donna afroamericana, e le ridicole derive pedagogiche dei genitori del ventunesimo secolo.

E poi, la Cancel Culture naturalmente. Perché repetita juvant. E pazienza se qualche recensore storce il naso. E il famigerato corollario della Cancel Culture ossia la ‘Woke’ Culture, cioè quella consapevolezza per i temi sociali, traboccante di una sedicente sensibilità più matura rispetto al passato, che abbraccia vari argomenti: dal consenso del rapporto sessuale al body shaming, dal #metoo al #blacklivesmatter. Una cultura suscettibile che pretende di dettare nuove e inattaccabili norme di comportamento.

Si va dai progressisti di taglio democratico e bigotto che si riempiono la bocca di slogan sui diritti delle minoranze, ma si limitano a offrire il loro sostegno usando twitter nell’ambiente ovattato del loro appartamento da bianchi borghesi.

Oppure il rovescio della medaglia: il patriottismo di matrice repubblicana (“America, o la ami oppure te ne vai”), quell’umanità di cabotaggio grezzo che sostiene ad oltranza l’uso delle armi e l’invio delle truppe in guerra, ma diventa dissidente e negazionista quando lo stesso governo che giustifica l’uso delle armi e della guerra gli chiede di vaccinarsi.

E ancora sul femminismo, uno dei suoi ‘ismi’ preferiti: le donne sono sul piede di guerra perché le giocatrici della WNBA guadagnano meno dei loro colleghi maschi, ma gli stadi del basket femminile sono sempre vuoti. Dovrebbero essere pieni di femministe, ma le donne preferiscono guardare i Kardashian. Nello specifico, perciò, amano assistere a uno spettacolo in cui le donne si insultano, con l’intento di eliminarsi a vicenda, invece di guardare una partita in cui una squadra di donne in armonia tra loro lotta per un obiettivo comune.

Burr si sofferma sulle polemiche suscitate dalle frase sessiste pronunciate da John Wayne in un’intervista rilasciata sulla rivista Playboy nel 1971. Oltre a puntualizzare come la Cancel Culture si accanisca contro un uomo morto, spulciando tra le parole stampate 50 anni fa su una rivista che non esiste più, Burr ne estrapola la strategia di fondo per ricordare le simpatie naziste di Coco Chanel, considerata l’icona dell’emancipazione femminile, con tanto di relazioni amorose con i gerarchi del Terzo Reich. Simpatie ovviamente taciute dagli stessi fustigatori di John Wayne o del ‘sessista’ Sean Connery, mentre Coco Chanel dovrebbe essere considerata una donna orribile se si usasse la stessa unità di misura.

Ognuno di noi appartiene alla propria epoca e afferma concetti che vanno contestualizzati. Altrimenti che dire di Gesù e del suo rapporto con una prostituta?

Bill Burr non usa toni da predicatore. È l’amico cazzeggione del pub, stufo di tutto, che si indigna e prende per il culo, fingendo prima di allinearsi alle tue aspettative, qualsiasi esse siano, per poi sterzare, costruendo una matrioska di punchline, utili a individuare le contraddizioni interne a un’opinione che solamente in apparenza sembra saggia e definitiva, mentre è sufficiente ribaltarne il punto di vista per sbugiardarne le regole di fondo e costringerci a ricominciare daccapo. L’amico che ha una visione trasversale delle cose, ma prende la mira e mette fuoco il cuore di ogni questione.

Il finale del suo show Bill Burr lo dedica al tema dei temi: l’aborto. In dieci minuti, con una logica cristallina e glaciale, vi farà riflettere sulle vostre ferree certezze, sia che voi siate al 100% pro-choice (come lui), oppure anti-abortisti convinti. Vi confonderà. Forse non cambierete idea, ma di sicuro, per onestà intellettuale, vi ritroverete a rifare il tagliando ai vostri incrollabili principi morali.

“Live at Red Rocks” è un grande show, ma Burr ne ha sfornati di migliori. Su Netflix trovate anche “Paper Tiger” e “Walk Your Way Out”, ad esempio, E se vi creasse dipendenza, potete comodamente scandagliare You Tube alla ricerca dell’abbondante materiale disponibile, tra vecchi spettacoli e comparsate nei migliori talk show americani.

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