Alfred Hitchcock: “Il mio film più terrificante”

Federico Fellini: “Un poema apocalittico”

Gli uccelli (1963)

Sky /Now

Compie 60 anni uno dei capolavori di Alfred Hitchcock, ispirato liberamente a un racconto di Daphne du Maurier. Considerato un film caposcuola dell’horror apocalittico, “Gli uccelli” è un’opera d’avanguardia, tra quelle che meglio sottolinea l’unicità del maestro del brivido. Mestierante empirico e geniale precursore, Hitchcock seppe concepire un cinema d’autore pur rimanendo nell’ambito delle regole dello star system, onorando al contempo le ovvie necessità dell’intrattenimento popolare. Una lezione da riscoprire e una raccolta di interpretazioni su cui riflettere.

Nell’inquadratura conclusiva migliaia di volatili, appollaiati e minacciosi, intasano l’immagine, illividita dal cielo albeggiante di Bodega Bay. I quattro superstiti, con la protagonista Melanie (Tippi Hedren) ferita e sotto shock, montano in macchina con circospezione per cercare di fuggire alla morte, procedendo lentamente verso i confini dell’isola, mentre il gracchiante mormorio degli animali assassini aumenta di volume e di frequenza. Un rumore che insieme al battito delle ali restituisce il mormorio intimidatorio del male assoluto, la condiscendenza del nemico impassibile che sa di aver surclassato l’avversario.

Nel 1960, con “Psyco” e la storia del serial killer Norman Bates, il precursore Hitchcock aveva scolpito la grammatica del thriller moderno; tre anni più tardi il cineasta inglese solidificava le basi del disaster movie e dell’horror apocalittico in cui l’uomo e la civiltà soccombono alla forza sovrumana e imprevedibile della Natura.

Ma c’è uno scarto, ed è smisurato: se infatti Norman Bates è un essere umano che può essere studiato da un criminologo, e per il quale è possibile stabilire delle ipotesi sulle motivazioni che lo spingono a uccidere, l’orrore prodotto dagli uccelli sfugge alle risolute regole della scienza e della logica. Come conferma anche lo scetticismo dell’ornitologa interpellata durante il film. Gli uccelli killer non sono animali geneticamente modificati, né sono stati immersi in un liquido radioattivo. Non sono nemmeno gli avanzi deformi di strani esperimenti fatti in laboratorio. Alla vana ricerca di una spiegazione, scopriamo di non essere neppure in presenza di una reazione contro un gruppo di esseri umani che hanno invaso il territorio della bestia. Gli uccelli killer sono normali passeri, gabbiani, corvi, merli: innocui pennuti che vivono in un ambiente condiviso in armonia, ma decidono di coalizzarsi contro l’uomo, sfruttando la propria posizione privilegiata di padroni del cielo. E come uno squadrone di aviatori mettono a punto una strategia militare di attacco per conquistare il suolo.

L’altro scarto sta nella rottura dell’argine che nei gialli viene solitamente fornito dall’indagine che conduce all’identità dell’assassino. Ne “Gli uccelli” il volto dell’omicida non è nascosto dal mistero e i puntelli narrativi della detection sono del tutto assenti, svaniscono per lasciare spazio all’angoscia, alla pura attesa della prossima mossa, sempre più grave e terrificante, di un criminale già noto. La ripercussione coerente di questo approccio narrativo è naturalmente il finale aperto, la concessione completa dello sguardo agli uccelli, dalla cui volontà dipendono le sorti dei quattro fuggitivi e il destino dell’umanità. Lo sguardo (nel cinema) è il potere assoluto. E il finale aperto nega la risoluzione catartica, mentre rimane la rappresentazione di una paura primordiale in coda a un viaggio dentro l’abisso dell’irrazionalità.

Passando all’aspetto tecnico, Hitchcock compie altre due scelte in controtendenza. La prima è l’assenza di colonna sonora: il fitto e monotono sbarramento del silenzio viene interrotto solo dal baccano prodotto dagli uccelli, rielaborato come una partitura musicale dal compositore Bernard Herrmann in fase di post-produzione, avvalendosi di una tecnologia ancora non sperimentata che permise di mixare le strida vere con quelle elettroniche. La seconda scelta fu rivoluzionaria all’interno della filmografia hitchcockiana che con circa 1500 cut triplicò il numero di inquadrature rispetto ai suoi film passati.

Venendo alle numerose interpretazioni, proprio negli stessi anni in cui il collega svedese Ingmar Bergman stampava su pellicola la sua trilogia dedicata al silenzio di Dio, Hitchcock sembra mostrarne la collera, il monito biblico: è una delle molteplici letture metaforiche cui ancora si presta questo capolavoro del terrore. Un’altra, decisamente atea e filosofica, considera i furenti attacchi assassini degli uccelli alla stregua dell’incarnazione dell’assurdo: la mancanza di senso ultimo nella vita viaggia sulle ali di emissari di morte che devastano la fede con l’arma della totale arbitrarietà contro la quale l’uomo non può fare nulla.

Vi sono poi letture più ‘facili’ da cogliere che vedono gli uccelli come il simbolo dell’atomica – il film fu girato nei primi anni della Guerra Fredda – oppure la raffigurazione allegorica delle bombe lanciate durante la Seconda Guerra Mondiale.

Calandoci, invece, nella sfera della psicanalisi, potremmo citare l’audace ma pertinente interpretazione di Bill Krohn, che nella sua monografia su Alfred Hitchcock edita dai Cahiers du Cinema afferma: Quando gli uccelli fanno irruzione in un spasmodico crescendo di violenza, essi sono anche proiezioni del nostro desiderio nascosto. Ancora peggio, del nostro sadismo di spettatori, che sembra rivolto in particolare ai bambini. E che riguardo all’inquadratura finale sostiene: l’inquadratura dell’auto spezza in due lo stormo, come fosse il Mar Rosso, per svanire in lontananza e lasciarsi alle spalle uno schermo pieno di gracchianti aggressori: i nostri desideri inappagati.

Insistendo sul versante preferito dagli strizzacervelli, “Gli uccelli” è stato letto anche come una psicosi collettiva che rispecchia l’ansia degli abitanti di Bodega Bay, che reagiscono con una fantasia apocalittica alla minaccia della loro secolare solitudine che ne ha forgiato le nevrosi ansiogene. Ma è valida anche la lettura della follia omicida dei volatili come proiezione della madre castrante del protagonista maschile (Rod Taylor) che proietta appunto la sua furia interiore nei confronti della donna che rischia di portarle via il figlio, dopo essersi già sbarazzata in maniera meno satanica delle precedenti spasimanti. Le due interpretazioni sono integrabili l’una con l’altra perché Melanie/Tippi Hedren rappresenta l’agente catalizzatore, l’intruso innamorato che innesca la reazione violenta individuale e/o collettiva in una letale coazione a ripetere.

Di sicuro Hitchcock si addentra nel campo del Perturbante, cioè l’angoscia che scaturisce dall’ambivalenza tra estraneo e familiare: qualcosa di già noto ma la cui valenza dolorosa era stata rimossa e seppellita nell’inconscio. Nel caso specifico del film, il Perturbante insorge nel momento in cui i protagonisti sospettano che gli uccelli siano in possesso di una coscienza e che abbiano la capacità di elaborare un massiccio e mirato piano di attacco.

Da quest’ultima lettura ne deriva un’altra: uomini e uccelli che vivono in armonia, ognuno dentro al proprio ruolo, sono il simbolo del conformismo, dell’ordine voluto dall’uomo stesso, che ha costruito per sé un giardino in opposizione alla Natura selvaggia. Un assetto civilizzato che spesso prevede gli uomini liberi e gli animali in gabbia o comunque subordinati alla volontà dell’uomo. La ribellione degli uccelli è quindi la bomba iconoclasta che deflagra all’interno del giardino (della gabbia dorata…) e mette a soqquadro la spavalderia dell’uomo insolente che ha osato costruire un mondo ordinato per sé scavalcando i precetti della Natura.

60 anni dopo, Gli uccelli, film perfettamente integrato nelle regole dello star system eppure innovativo e sperimentale, si propone ancora come una stratificazione di affascinanti congetture e di intriganti chiaroscuri che si moltiplicano ad ogni visione, anche se per Alfred Hitchcock – interrogato da Francois Truffaut nella celebre intervista – rimane una semplice fantasia cinematografica, una costruzione intellettuale.

Un’altra opera maiuscola di un artista che ha avuto il merito di dare un nome, un volto e una collocazione nell’immaginario delle nostre paure più irrazionali. E che ci costringe ancora ad interrogarci sull’identità dei fantasmi che ci terrorizzano quando siamo al buio

 

 

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