“E’ STATA LA MANO DI DIO” CANDIDATO ALL’OSCAR COME MIGLIOR FILM IN LINGUA STRANIERA: IN ITALIA SI GIUBILA PER IL SUCCESSO DI UN CONNAZIONALE, L’ALGORITMO UMANO SI COMPIACE PER LA SCELTA DI UN FILM BELLISSIMO, DA GUARDARE SU NETFLIX

Dopo la vittoria, nel 2014, dell’Oscar per quello che ancora si definiva Miglior Film Straniero con La grande bellezza, Paolo Sorrentino quest’anno strega di nuovo gli Americani ed eccolo candidato con E’ stata la mano di Dio, già vincitore del Leone d’Argento a Venezia, visibile su Netflix.
Pagine e titoli e tweet di compiacimento da tutte le fonti possibili, anche da parte di chi un film di Sorrentino non lo ha mai visto, e dei tanti che dopo il ventesimo minuto decidono che non si capisce niente e mica crederà questo di essere Fellini? e non finiscono di guardarlo.
Felicità perché un italiano è candidato al premio cinematografico mainstreamente più importante al mondo, legittima e molto tipica di un paese che si scopre patriota quasi solo nelle competizioni. Insomma la stessa felicità e lo stesso compiacimento di quando vinciamo un oro alle olimpiadi nel curling: una gioia vera, ma aprioristica e in fin dei conti totalmente insensata (che del resto è l’unica gioia che val la pena di provare).
Noi decidiamo di uscire dall’ottica dell’orgoglio patriottico ed entrare in una squisitamente estetica e algoritmicamente soggettiva, ovvero di quello che piace e soprattutto che piace a me.
Quindi, nel commentare le nomination all’Oscar, prima di tutto mi compiaccio che Il potere del cane, che ho apprezzato moltissimo (qui)ne abbia meritate ben 12. DODICI, e tutte in categorie importanti (sì, l’Academy Awards consegna premi di serie A e di serie A-: in quanti sanno dire chi ha vinto l’anno scorso per i migliori effetti sonori o miglior trucco? Se non è italiano, non lo sappiamo, ammettiamolo): miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura non originale, scenografia, fotografia, colonna sonora, montaggio, sonoro, e poi attore protagonista, attrice protagonista, e ben due attori come miglior attore non protagonista. Tutti, a nostro pregresso giudizio, meritati.

Solo poi c’è E’ stata la mano di Dio, che sono contenta sia stato candidato all’Oscar non tanto perché il regista e produzione sono italiani, ma perché anche questo è un film che giudico bellissimo e ho amato molto, e quindi in questo caso il compiacimento nasce semmai dal realizzare di avere gli stessi gusti dei membri dell’Academy Award.

I soliti titoli e tweet e giudizi definiscono in automatico, quindi fino alla noia, che questo è il film di Sorrentino più personale. La verità è che è il primo veramente personale, perché esplicitamente racconta la sua esperienza giovanile, con il trauma supremo di aver perso entrambi i genitori quando aveva 18 anni, realizzando una sorta di autobiografia con protagonista un alter ego di nome Fabio Schisa (Filippo Scotti, Miglior Attore Emergente a Venezia), in cui è reso volutamente difficile separare il vero dall’inventato e i fatti dalle giustapposizioni fantastiche, che alla fine forse sono quelle che contengono più verità.
Personale il film lo è certamente, ma risulta anche molto ‘elaborato’, molto sorrentiniano nello stile. Segno, credo, che quello stile, quell’estetica così costruita e lavorata, è in realtà connaturata al regista, e quindi all’uomo. Lo stile registico di Sorrentino parla di lui, è volutamente artificioso ed estetizzante ma è anche onesto, non nel senso di realistico ma di rappresentativo: Paolo Sorrentino parla di sé anche quando parla d’altro, o di altri, o di sogni.

Il regista ha commentato così la notizia della sua nomination, e che lusso sentire spiegato in poche frasi dall’autore il contenuto del film e la sua visione artistica: “Sono contento perché è un riconoscimento prestigioso ai temi del film, che sono le cose in cui credo: l’ironia, la libertà, la tolleranza, il dolore, la spensieratezza, la volontà, il futuro, Napoli e mia madre.”
Se non potesse essere scambiata per mia pigrizia intellettuale, io potrei anche finire qui: se avete visto il film, ripercorretelo alla luce dei temi che il regista vi indica, se non lo avete visto, leggete e poi andate velocemente a farlo. In quei nove concetti è racchiuso, spiegato, riassunto il senso del film. Oltre e anzi prima della storia, ci sono questi ‘temi’, come le idee platoniche, che preesistono alle cose. Se guardate, stanno vicini Napoli e la madre, che lo hanno generato, la libertà e la tolleranza, le due guide spirituali, ma soprattutto il dolore e la spensieratezza.
Spensieratezza e dolore sono i due poli tra i quali si muove la storia. Un’accusa che è stata fatta al film è di essere discontinuo, di avere due parti troppo diverse, ma la verità è che è la storia stessa che subisce a un certo punto una cesura: la vita di Fabio/Paolo è scanzonata e divertente e caotica e colorata prima, anche se tutt’altro che perfetta, e dopo la morte dei genitori tutto è ovattato, silenzioso, solitario, malinconico, sommesso. Nettamente diverse, le due parti rappresentano il prima e il dopo con tutti i mezzi e attraverso tutti i sensi, si può dire: si adatta il sonoro, i dialoghi, la luce, la scenografia, la colonna sonora, la città.
Nella prima fase prevale l’anima di Napoli ironica e dissacrante, e su tutto domina Toni Servillo. Nei panni del padre del protagonista, questo attore che pare idealmente una figura paterna per Sorrentino, è incredibile, forse fin troppo presente: giganteggia su un cast che pure non è banale. Il sorriso che percorre questa parte del film è il suo sorriso, che è quello di un Jep Gambardella che è riuscito ad evitare il vuoto esistenziale, è quello di un uomo che con tutti i suoi difetti ha insegnato al figlio ad amare la vita perché ci ha trovato dentro un lato comico, non perché non ne veda quello tragico.
Quando il padre muore, e Servillo scompare dalla scena, ogni cosa cambia. Fabietto rimane solo e il suo essere orfano è plasticamente rappresentato da Filippo Scotti con un costante senso di spaesamento, di disagio, di indeterminatezza.

Tutto cambia intorno, mentre il protagonista rimane uguale, perché è bloccato da quel dolore che non ha un nome, non ha possibilità di essere rappresentato né detto perché è troppo grande. Quando il regista Capuano, in una scena finale potente anche se didascalica (come spesso succede: potente perché coraggiosamente didascalica), cerca di far esprimere all’aspirante regista Fabietto cosa ha da dire, cosa ha da raccontare, il ragazzo ha la battuta più importante di tutto il film, e dice ‘Guardare è l’unica cosa che so fare’.
Dato che Fabio Schisa E’ Paolo Sorrentino da giovane, al netto di tutte le parti inventate della sua vicenda che rimane fondamentalmente vera, allora magari è lo stesso regista che ci sta chiedendo di giudicare il suo film, il suo cinema, senza caricarlo di troppi doppifondi intellettuali: lui ha come potere il talento dello sguardo, e porta sullo schermo quello che vede, deformando e piegando la realtà con la forza di un’immaginazione ancora fanciullesca, e allo stesso tempo vecchia e stanca (sinteticamente rappresentata dalla figura del monaciello). Tutto quello che vogliamo interpretare andrà bene, ma quello che ha fatto e fa Paolo Sorrentino col cinema, è mostrare quello che i suoi occhi hanno visto e come lo hanno visto. Che come definizione di arte cinematografica non è nemmeno troppo male, a ben pensarci.

Guardiamolo dunque, questo film candidato a rappresentare il nostro paese al di là dell’Oceano, ringraziando Netflix che ce lo permette. Guardiamolo e godiamo della capacità di questo autore di essere troppo ambizioso e inaspettatamente umile, di essere ferocemente estetizzante e allo stesso tempo miniare caratteri ed emozioni realistici, di ispirarsi a Fellini ma anche a Troisi e di cercare di compiacere il pubblico ma rimanendo sempre fedele a sé stesso. Un ragazzo ormai maturo che sa guardare, e mettere in bellissima copia quello che vede. Poi, dopo, se vince l’Oscar, ci sarà anche il tempo per interpretare e trovare i significati reconditi.

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