In un’epoca popolata da anticonformisti fake e sovversivi da social, facciamo un salto nel passato con una serie tv, un film e tre documentari che raccontano le storie di chi ha causato vuoti d’aria sul volo della narrazione dominante, costringendo il mercato ad adeguarsi alle loro genuine trasgressioni e non viceversa.

Fluidi, disinibiti e dopati secondo gusti personali non indottrinabili, succedeva che questi artisti sfasciassero chitarre e demolissero stanze d’albergo, ma nello stesso tempo costruivano nuove fondamenta e ponti duraturi da percorrere verso territori inesplorati. Roba da veri influencer visionari. Nel nome del rock e dei suoi derivati.

PISTOL

(Disney)

La classe operaia va in paradiso. La rapida e animosa parabola dei Sex Pistols nell’Inghilterra degli anni 70 raccontata dallo sguardo sapiente di Danny Boyle. Il regista di “Trainspotting” mette in scena il copione scritto da Craig Pierce, lo sceneggiatore di “Moulin Rouge!”. Ma il grembo materno della miniserie è “Lonely Boy: Tales from a Sex Pistol”, il libro di memorie realizzato da Steve Jones, uno dei fondatori della band. Ed è questo a dettare la prospettiva. 6 episodi per narrare una storia fugace ma dallo sconvolgente impatto a lungo termine. Una rivoluzione delle fondamenta che iniziò il carotaggio nel negozio londinese del manager della band, Malcolm McLaren, epicentro del movimento punk prima che il punk avesse persino un nome. Boyle e Pearce scrivono il capitolo definitivo che traghetta nel paradiso delle leggende le grida stonate e rabbiose di Steve Jones, Paul Cook, Sid Vicious, Glen Matlock e Johnny Rotten (che ha disconosciuto la serie), fra strafottenza proletaria, oscenità e furore. Un capitolo su cui risalta tutto il fragore causato dall’album “Never Mind the Bollocks” e si dissolve con la morte per overdose di Sid Vicious.

KURT COBAIN: MONTAGE OF HECK

(Amazon, Rakuten, Apple Tv, Google Play)

Kurt Cobain, l’icona del grunge e l’ultimo martire della storia del rock. Il leader dei Nirvana diventa una sorta di oggetto di indagine nel biopic diretto da Bret Morgen, che ha setacciato liberamente l’archivio privato messo a sua completa disposizione dalla famiglia del frontman. Tra i produttori esecutivi anche la figlia di Kurt, Frances Bean. Sfilano quelli che sono stati i suoi compagni di viaggio, sul palco e in sala di incisione, naturalmente. Il senso del documentario, però, sembra essere quello di afferrare un’anima creativa sfuggente montando il copioso materiale di repertorio – composto da annotazioni, disegni, embrioni di canzoni, strimpellate anarchiche e istantanee della vita personale – con le sequenze animate create da Stefan Nadelman e Hisko Hulsing. Non solamente un ritratto biografico, ma un tentativo di rompere, tramite un lavoro di assemblaggio e cucitura, l’argine che separava il mondo esterno dal disagio interiore e i vuoti esistenziali di Kurt Cobain. Alcuni fan hanno trovato irritante la violazione postuma della privacy del loro idolo, ma “Montage of Heck” avanza tra le ombre e i dubbi di una personalità tormentata mantenendo il rispetto per una ferita non cicatrizzabile.

RUDE BOY

(Netflix)

 Gli esordi dei Clash in un docu-fiction del 1980 che descrive la punk band britannica quando ancora non era nel pieno del suo fulgore ma già esibiva un distillato di energia e nervi. Gli occhi che guardano sono quelli di Ray Gange, una testa calda londinese che riuscì a diventare il roadie di Joe Strummer e compagni in occasione del “Sort It Out” tour e fu testimone della registrazione dell’album “Give ‘Em Enough Rope”. Ci si immerge nella sottocultura punk afferrandone sia le influenze musicali reggae e ska, sia le istanze politiche, accentuate dal fatto che, mentre la collocazione dei Clash fosse a sinistra, il protagonista proveniva da un background totalmente opposto, avendo simpatie per l’estrema destra del National Front. Era l’Inghilterra che stava per aprire le porte di Downing Street a Margaret Thatcher, mentre dal movimento operaio sgorgava un impetuoso malcontento e il contesto economico mostrava tutte le sue falle.

ECHO OF CANYON

(Netflix)

 Le ‘good vibrations’ della West Coast degli anni 60 ripercorse da Jakob Dylan che riaccende i riflettori sul quartiere di Laurel Canyon, a Los Angeles, palcoscenico della controcultura ai tempi dei Beach Boys, di Crosby, Still, Nash & Young, dei Byrds e poi ancora culla dei Buffalo Springfield, di Frank Zappa e dei Mamas and Papas. In effetti potremmo dire che proprio lì, in quella zona fra la San Fernando Valley e West Hollywood, la controcultura rock fu concepita e battezzata. Tutti a stretto contatto fra loro, in un interscambio di idee e ispirazioni. Oltre a intervistare gli esponenti dell’epoca, il figlio del premio Nobel Bob ne ripropone alcune hit in un concerto speciale affiancato tra gli altri da Beck e Norah Jones. Si coglie la sostanza di un periodo creativo fatto di condivisione e sperimentazione che si spezzettò in vari sottogeneri (il California Sound, il West Coast Rock, il folk scarno e puro che si evolse successivamente in folk elettrico e anche gli albori della psichedelia). Oltre ai reduci di quel periodo gravido di suoni e di vita, Jakob Dylan intervista anche Ringo Starr –  per testimoniare ancora una volta quanto il capolavoro dei Beach Boys, “Pet Sounds”, fu fonte di ispirazione per il beatlesiano “Stg. Pepper” –  e il compianto Tom Petty.

MOONAGE DAYDREAM

(Mediaset Infinity)

Il primo documentario dedicato a David Bowie ufficialmente autorizzato dagli eredi dell’artista porta la firma di Brett Morgen, lo stesso autore di “Kurt Cobain: Montage of Heck”. Un progetto dalla gestazione quinquennale che ad oggi rappresenta l’omaggio più esaustivo sulla carriera del Duca Bianco. Un’impresa tutt’altro che semplice, considerando che ci troviamo di fronte a un esempio di prolificità con pochi eguali. David Bowie ha trasceso la definizione di musicista rock per rivestire la carica di filosofo e intellettuale, ridisegnando confini e coordinate della carta geografica del rock. Il documentario è un giro sulle montagne russe di 140 minuti che rievoca i capolavori riconosciuti e le sperimentazioni, le giravolte creative e il trasformismo bowiano, nel look, in concerto e in sala d’incisione. Tutto il materiale contribuisce a restituirci il ‘Bowie-pensiero’. Un caleidoscopio a cui sarebbe meglio arrivare forti di una conoscenza almeno basica dell’universo-Bowie per non rischiare di perdersi in questo ammirevole e ipnotico viaggio interstellare. Ground Control to Major Tom … così come il protagonista di “Space Oddity” che perde il contatto con la torre di controllo, anche qui c’è il rischio, piacevolissimo, di smarrirsi in una odissea nello spazio.

 

 

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