In attesa della cerimonia del 25 aprile, che consegnerà i premi più ambiti dell’anno, vi proponiamo ogni giorno un film diverso fra i trionfatori del passato.
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A BEAUTIFUL MIND
(SKY, NOWTV, NETFLIX, TIM VISION)
MIGLIOR FILM
MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA: JENNIFER CONNELLY
MIGLIOR REGIA: RON HOWARD
MIGLIORE SCENEGGIATURA NON ORIGINALE: AKIVA GOLDSMAN
Ron Howard è uno dei paladini del cinema americano mainstream, nazional-popolare, di garantito successo al botteghino. Basta scorrere la sua filmografia per accorgersi della sua ‘medietà’ dal solidissimo mestiere. Un cinema da comfort-zone, si direbbe adesso, che si affida a script di sicuro interesse generale, cast formato da attori affermati (Per “A Beautiful Mind,” ha ingaggiato Russell Crowe, vincitore dell’Oscar per “Il gladiatore”), scorribande nei bestseller da vetrina natalizia (“Il codice Da Vinci”, “Angeli e demoni”, “Inferno”). Per proseguire con qualche incursione nella storia americana che sia godibile da tutta la famiglia (“Apollo 13”, “Frost/Nixon”, “Heart of Sea – Le origini di Moby Dick”) e naturalmente la carta vincente del biopic a tutto tondo approcciato il più agiograficamente possibile (“Cinderella Man”). Insomma un cineasta divulgativo, promulgatore del decoupage classico senza sgraffi né ubriacature. E con una recente fatica a zero rischi (e non riuscitissima) ispirata all’universo di Guerre Stellari (“Solo: A Star Wars Story”).
Massimo rispetto per un legittimo alfiere dell’intrattenimento a cui si deve peraltro, agli inizi della carriera, “Splash – Una sirena a Manhattan”, un cult per tutti gli scalpitanti adolescenti degli anni 80 ancora stupefatti dalla visione di Daryl Hannah in versione mermaid.
Forse “A Beautiful Mind” rimane ad oggi il suo film più riuscito proprio perché incorpora nel personaggio del matematico John Nash una visione di cinema per lui inconsueta. Non nel prodotto finale, che resta coerente a una concezione rassicurante e addomesticata, bensì per l’ambivalenza con cui il protagonista, malato e geniale, si approccia agli oggetti che lo circondano, portatore di uno sguardo che decifra codici che gli altri non riescono a decifrare. Come se Howard avesse delegato al soggetto della biografia quel passo in avanti, verso la porta di ingresso che conduce a un universo sconfinato e non codificabile dai comuni mortali, usando Nash come vettore di un sogno (bagnato) di cinema emancipato e audace che lui stesso ha preferito, per mancanza di estro o per semplice scelta artistica, negarsi.
Nash sa decriptare codici dissimulati, giungendo a un secondo livello di significazione. Lui osserva, scruta l’oggetto: le parole, i numeri, le figure, la realtà. E la aggredisce guardandola, costringendola a rivelarsi, a confessare il suo significato nascosto. In pratica, ritrasforma l’oggetto della sua attenzione riconsegnandogli la sua essenza originaria, oppure la capovolge nella visionarietà. Un’essenza a cui non si arriva se ci si accontenta di un approccio svogliato e normalizzante.
John Nash fa in pratica quello che fanno i giganti della regia: osserva un mondo e ne svela il significato, lo stratifica, illuminando zone buie, zoomando sui dettagli a partire dal totale. Riesce a farlo anche per lo squilibrio che lo contraddistingue. Lo squilibrio dell’equilibrista; nel suo caso lo squilibrio della malattia di cui soffre che, se da una parte lo aiuta a penetrare nel recondito della realtà, dall’altra lo condanna alla costruzione di una realtà fittizia interna al suo cervello. Succede ai geni, ai malati di schizofrenia, agli artisti che non si accontentano di un’opera calligrafica, ma puntano a un’opera che sia febbrile, destabilizzante e sbilanciata verso la pura creatività.
La bellezza (cinematografica) della mente di John Nash, il cardine della sua Beautiful Mind sta proprio nei deliranti cortocircuiti mentali che lo convincono di essere stato chiamato a svolgere un delicato compito spionistico e al contempo di essere vittima di complotti e pedinamenti. Dentro la sua testa c’è un film noir, dai codici sommersi e labirintici. E’ nella sua testa che il film si svolge, in un habitat percettivo (in)controllabile e contraddittorio, prima di essere assorbito nella struttura regolata e disciplinata del college, dove riesce a convivere con la malattia.
John Nash finirà dunque per vedere attuati in se stesso i medesimi criteri innovativi da lui sviluppati nel campo della teoria economica e dei giochi, che negano la necessità di una prevalenza tra due o più unità in competizione. Tra normalità e malattia, nel suo caso.
Continuando a insistere sul parallelismo fra il John Nash personaggio e il Ron Howard regista, possiamo pensare al cinema di quest’ultimo come alla scelta di far predominare la parte mansueta ed edulcorata senza mai disturbare la percezione ai suoi estremi, senza bussare alla porta delle pulsioni, per la paura di non ottenere un consenso ampio ed eterogeneo, saltando quel muro di cinta e sfidando quei cani da guardia che solitamente proteggono il cinema mainstream.
LA SCENA CULT