DI NECESSITÀ VIRTÙ. CON SUPERNATURE, RICKY GERVAIS RILANCIA IL SUO SODALIZIO CON NETFLIX COSTRUENDO UNO SHOW CHE PUÒ ESSERE CONSIDERATO IL PROLUNGAMENTO DEL PRECEDENTE HUMANITY, DATATO 2018. QUATTRO ANNI E UNA PANDEMIA PIÙ TARDI, IL BERSAGLIO ALL’ORDINE DEL GIORNO È RIMASTO LO STESSO.

 

SUPERNATURE                                                                                                 VOTO: 8

(Netflix)

“It’s good to be back”, dice il comedian britannico prima di scendere in trincea a difesa del diritto alla comicità inclusiva, cioè il diritto di poter sbeffeggiare tutti, persone transgender comprese, ossia la minoranza che al momento sembra la più sensibile e incline all’indignazione. I primi quindici minuti di Supernature, Ricky Gervais li impiega a spiegare il concetto di ironia e ad illustrare l’attuale stato dell’arte della stand-up comedy, compreso il rapporto conflittuale con la Cancel Culture. Un’ossessione, un’astuzia per mascherare il calo di ispirazione, oppure davvero una necessità?

C’è di mezzo la satira politica. Tra un po’ ci arriviamo.

“Pensi di essere un comico? Sei divertente come una scoreggia al funerale di un bambino”. Gervais deride il tweet ricevuto e lo prende come un’incitazione ad amplificarne lo sdegno, cucendoci sopra uno sketch foderato di cinismo micidiale.

Con la medesima coerenza, Gervais non contiene le sue prese in giro nei confronti delle persone transgender, che vanno a rimpolpare gli altri argomenti trattati: Hitler, la pedofilia, l’obesità, le malattie, la morte, la reincarnazione. Con ampio, sprezzante e liberatorio uso di un sarcasmo beffardo che non risparmia nessuno. E che a differenza delle serie tv da lui scritte non offre neppure il contrappeso della compassione (QUI LA RECENSIONE DI AFTER LIFE).

Tanto per citarne una: Dio inventa l’Aids per uccidere gli omosessuali cominciando dall’Africa (“tanto lì si muore comunque”) ma chiede al virus di risparmiare le lesbiche (“Because I enjoy watching them”).

Chi segue Gervais potrebbe provare un effetto dèjà vu, per le assonanze con il precedente spettacolo e perché alcune battute stanno nella stessa valigia dalla quale Gervais abitualmente pesca il suo materiale nei talk show o nei podcast. E potrebbe anche rimanere deluso da un eccesso di puntualizzazioni, come se Gervais si sentisse in dovere di rendere esplicito il meccanismo comico, di spiegare l’ABC dell’umorismo, invece di andare dritto al punto e snobbare le deplorazioni social.

Ma più che giustificarsi, Gervais irride con insolenza la disapprovazione e il fanatismo dei censori. Nutre i troll ma al tempo stesso li usa come una miniera d’oro.

L’impressione è che i social siano diventati lo strumento in mano a un apparato di sorveglianza intransigente e sempre connesso. E se una volta la satira era rivolta a ministri e monarchi, ora punta il mirino su una nuova forma di potere. Il potere che si sprigiona dalla pretesa di trasformare uno stato d’animo personale in concetto universale, e da lì arrivare all’intimidazione e al divieto.

Facendo riferimento a quanto successo al comico americano Kevin Hart, costretto a rinunciare alla presentazione degli Oscar per un tweet scritto e cancellato dieci anni fa e per il quale si era anche scusato, Ricky Gervais osserva con logica disarmante che non è possibile stabilire cosa sarà ritenuto offensivo da qui a dieci anni e che ognuno di noi è passibile, quindi, di censura e di cancellazione. Tutto dipenderà da quale sarà il pensiero dominante in futuro.

È un concetto elementare, eppure sembra che sia necessario ribadirlo. Sul gioco da tavolo della comicità la pedina rischia di tornare al punto di partenza.

Non è ammissibile, perciò, che a stabilire l’unità di misura oggettiva di uno spettacolo comico sia il sentimento soggettivo di chi ha più tempo da perdere su Internet.

Il pericolo visibile all’orizzonte è quello di una sorta di normalizzazione dell’impulso comico che creerebbe una sovrastruttura impenetrabile. Per questo Gervais insiste con la satira nei confronti della disapprovazione, la stessa disapprovazione che tifa per la cosiddetta ‘woke comedy’, cioè una comicità conformista e consapevole delle ingiustizie sociali, delle minoranze e dei pronomi. Una comicità bio e a chilometri zero che ha il fetore dell’omologazione.

La comicità è un balletto tra verità, bugie, iperboli e paradossi che nascono dall’osservazione della realtà. Immaginare una realtà come un materiale composto da zone intoccabili, non suscettibili di scherno, significherebbe accettare la censura e condannare a un nuovo Medioevo la libertà d’espressione.

Citando lo stesso Gervais: “Ognuno può scegliere di essere e di sentirsi il gender che preferisce ma, ragazze, facciamo un compromesso: almeno tagliatevi il pisello”.

Lo show di Gervais ha incendiato il dibattito, specie negli Stati Uniti, dove l’argomento stritola i nervi e Dave Chappelle (QUI la recensione di THE CLOSER) ha perfino subìto un’aggressione sul palco. Se vi interessa la materia e volete approfondire, vi consigliamo di surfare tra le onde del web, immergendovi tra i tweet e commenti dei difensori del politicamente scorretto e della loro controparte più bigotta.

Oppure, semplicemente, godetevi la raffica di battute screanzate di Gervais, abbandonandovi al suono affilato del suo british english, che ferisce più di una scimitarra, tenendo a mente che ogni sua stoccata e ogni sua puntualizzazione è un tassello strategico necessario per quella che è a tutti gli effetti una battaglia artistica e politica di cui non si vede ancora la fine.

Una volta si diceva: That’s Entertainment! Ora la faccenda si è più complicata.

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