In attesa della cerimonia del 25 aprile che consegnerà i premi più ambiti dell’anno, vi proponiamo ogni giorno un film diverso fra i trionfatori del passato.

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CHICAGO

(SKY/NOWTV)

 

MIGLIOR FILM
MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA: CATHERINE ZETAJONES
MIGLIOR MONTAGGIO: MARTIN WALSH
MIGLIORI SCENOGRAFIE: JOHN MYHRE, GORDON SIM
MIGLIORI COSTUMI: COLLEEN ATWOOD
MIGLIOR SUONO: MICHAEL MINKLER, DOMINICK TAVELLA,
DAVID LEE

L’archetipo del musical, uno dei generi forti del cinema americano classico, si lega alla Chicago dei ruggenti anni 20, quella del Proibizionismo e dei gangster con le ghette, dell’esplosione della musica jazz e dell’art decò. Un altro archetipo stampato nell’immaginario cinematografico che ha ospitato mille storie e cullato altrettanti personaggi.

L’anello di congiunzione fra questi due archetipi è Bob Fosse, dal cui omonimo musical di Broadway, Rob Marshall ha tratto questa sua opera prima che trionfò alla notte degli Oscar del 2003: il primo musical a vincere il Premio per il miglior film dal 1968, l’anno di “Oliver!”.

Bob Fosse va considerato una specie di padre putativo della Broadway moderna. E di artista rivoluzionario che ha impresso il suo marchio sulla mitica strada newyorkese. C’è il suo nome dietro le sontuose coreografie di “Cabaret”, “All That Jazz” e “Lenny”. E c’è il suo sigillo da danzatore/regista/coreografo sul rinnovamento e l’evoluzione del musical che grazie a lui diventò un connubio fra danza moderna e jazz, capace di illuminare la scena ‘on e off’ negli anni 70. Da allora ogni show teatrale ha il dovere di misurarsi con lui e con il suo sexy style.

Il film è un musical che prende alla lettera i codici del genere tradizionale (interruzione senza preavviso della continuità narrativa per inserire i brani musicali e di danza che producono azione e mandano avanti la trama) e li accentua finendo per creare un oggetto filmico dal segno cambiato, perché le esibizioni canore o di danza sono il continuum sfavillante e abbondante in cui ogni tanto entrano spezzoni di realtà. I sipari musicali sono la motrice drammatica.

Con “Chicago” Rob Marshall, il produttore Martin Richards e lo sceneggiatore Bill Condon (che l’Oscar lo aveva vinto nel 1999 con “Demoni e Dei”) celebrano la città e il suo immaginario archetipico fatto di corruzione, omicidio e manipolazione attraverso la storia di due donne (Renèe Zellweger e Catherine Zeta-Jones) con le mani sporche di sangue per aver ucciso i loro amanti, e il contributo al loro destino offerto da un avvocato demiurgo e affabulatore, interpretato da Richard Gere, protagonista di una indimenticabile arringa e di un’emblematica esibizione in cui muove letteralmente i fili di Roxie/Renée Zellweger.

Ma questi sono mezzi per un altro fine, ben evidente nel film che mette a fuoco le ingorde degenerazioni della società dello spettacolo e gli automatismi distorti dell’informazione, con il suddetto legale ballerino, abilissimo a manipolare tali automatismi, ad aggirare la morale, tenendo in pugno le sorti della città e delle sue clienti: la soubrette affermata Velma e la sognatrice Roxie che grazie all’avvocato lascia il braccio della morte per calcare il palcoscenico da diva dello showbiz, indossando costumi a pailettes argentate.

La società descritta in “Chicago” è affamata di scandali e morbosità, ma anche di baldoria e mondanità; e si configura – anzi si trasfigura attraverso la fantasia di Roxie – come un perpetuo circo rutilante: un palcoscenico su cui si esibiscono, impastate, la realtà, il sogno e la cronaca. Un omaggio che cita i musical della Hollywood leggendaria, ma ne rivernicia il sottofondo, colorandolo di pessimismo, accostando le luci della ribaltà alle ombre dei bassifondi, l’omicidio alla fama, filtrate dalla lente di una critica sociale che vorrebbe bussare alla porta dei nostri tempi. Ma alla fine il messaggio rimane a margine di uno show smagliante in cui ad essere impressi nella memoria sono i folgoranti numeri musicali.

LA SCENA CULT

 

 

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