In attesa della cerimonia del 25 aprile, che consegnerà i premi più ambiti dell’anno, vi proponiamo ogni giorno un film diverso fra i trionfatori del passato.
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LOST IN TRANSLATION
(NETFLIX, AMAZON)
MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE: SOFIA COPPOLA
Il sentimento vero non vuole scomodi testimoni.
Nella scena finale di “Lost in Translation”, Bob Harris (Bill Murray) sussurra all’orecchio di Charlotte (Scarlett Johansson) una frase da cui noi spettatori siamo esclusi. Non sapremo mai quelle parole. Nemmeno cercando su google.
Sull’epilogo del loro incontro viene messo l’accento finale e inaspettato, che giunge al termine di un tragitto fatto di impulsi sottintesi, sfumature e impercettibili turbamenti.
Una Tokyo da cartolina, assordante e tremendamente noiosa nel suo essere così caotica, e all’interno di un hotel freddo e dispersivo, che sembra il totem innalzato per adorare il dio della globalizzazione, un maturo attore americano – in trasferta per girare degli spot pubblicitari – entra in sintonia con una connazionale, al seguito di un marito fotografo che la trascura. Charlotte è molto giovane ma porta già a tracolla tutta la disillusione dell’esistenza.
Il rapporto che nasce fra loro non ha una definizione: è una continua manovra di aggiustamento fra due solitudini. Se volessimo tradurlo (ma ci perderemmo nella traduzione…) in termini cinematografici, potrebbe collocarsi fra la commedia romantica e un candido melodramma, senza mai davvero avvicinarsi a nessuno dei due estremi, indugiando su quelle atmosfere un po’ stralunate e sfocate tipiche del cinema indipendente, senza per questo essere catalogabile neppure come Indie.
Il film è tutto giocato sul ‘mood’, su un’immaginaria vibrazione che si otterrebbe dando una schicchera al diapason della nostalgia. Che è il sentimento predominante: come se la vita consistesse tutta quanta nell’ebbrezza del ricordo. E’ negli sfioramenti, nelle discontinuità, nei gesti semplici e fortuiti che la vita appare e scompare.
Potremmo definirlo un ‘ultimo tango a Tokyo’ in versione platonica, ma sarebbe un accostamento ingeneroso per una pellicola così timidamente spavalda e autosufficiente nella sua nicchia. Un rifugio della mente in cui si rannicchiano due anime in lockdown, che si amano in modo anticonvenzionale. Fuori dal tunnel di ogni frenesia, Bob e Charlotte patteggiano con la rassegnazione di dover vivere per forza, riuscendo ad individuare un ‘qui e ora’ nel fracasso di una metropoli che simboleggia tutte le insostenibili giungle d’asfalto e clacson. E a ritagliarsi un ‘non-luogo’ su misura per sopportare il proprio apatico disincanto. Accettando anche le stonature. Come al karaoke, quando Bob canta una vecchia canzone dei Roxy Music: “More than this, you know, there’s nothing”. Più di questo non c’è niente.
LA SCENA CULT