In attesa della cerimonia del 25 aprile, che consegnerà i premi più ambiti dell’anno, vi proponiamo ogni giorno un film diverso fra i trionfatori del passato.

 

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C’ERA UNA VOLTA A… HOLLYWOOD

(SKY, NOWTV)

MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA: BRAD PITT

MIGLIORE SCENOGRAFIA: BARBARA LING, NANCY HAIGH

 

Concludiamo l’omaggio a Hollywood con l’omaggio a… Hollywood, infilandoci fra quei tre puntini di sospensione alla ricerca della mappa che conduce al tesoro: il cinema di Quentin Tarantino, non plus ultra della celebrazione della settima arte in tutte le sue componenti, anche e soprattutto quelle minori e marginali.

Tarantino sceglie il canto del cigno della Hollywood classica e mette nel mirino della macchina da presa un anno, il 1969 – già mitico di suo – per calcare l’alone di leggenda che circonda gli omicidi di Cielo Drive e la decadenza di un’epoca. Sulla falsariga di “Bastardi senza gloria”, Tarantino invita alla festa personaggi fittizi e personaggi realmente esistiti, seguendo la sua personale palla da baseball, come il Don De Lillo di “Underworld”, per portare alla ribalta il potere sconfinato del cinema, in grado di redimere e riscrivere la Storia con la S maiuscola. Tarantino si intrufola nella macchina cinema e la rende visibile attraverso le vicissitudini di Rick Dalton, attore di B Movies in declino, e della sua controfigura (e factotum privato) Cliff Booth, che per Rick è “più di un fratello e un po’ meno di una moglie”. In parallelo, segue le vicende di Sharon Tate che nella realtà fu uccisa dai seguaci di Manson, mentre nella rivisitazione di Tarantino l’epilogo è rocambolescamente differente. Il tributo al mondo dove si costruiscono le storie passa quindi per lo smembramento della cronaca a favore della fantasia. Una storia rielaborata a piacimento per confermare la padronanza mitopoietica della fabbrica dei sogni all’insegna del reinvenzione a oltranza.

Ogni inquadratura di Tarantino contiene gli elementi necessari alla stessa e rimanda ad altri, innumerevoli mondi narrativi, suggerisce varchi multidimensionali attraversabili dall’immaginazione: sono agganci ad altri universi di uno sterminato portfolio pop. La cura del dettaglio è impressionante per come rispecchia la sua concezione di cinema come ricerca di un appagamento perpetuo. Tarantino fa cinema per parlare di cinema e in “C’era una volta a… Hollywood” riesce, di nuovo (da “Le Iene a oggi) ad affollare i tempi morti e filmare la dilatazione goduriosa del superfluo, che superfluo non è.

Qualsiasi dettaglio è funzionale al godimento: nella scena cult che vi proponiamo qui sotto, le insegne al neon – che si accendono nel crepuscolo incipiente della California – si ispirano a uno stimolante repertorio di rimandi, sistemato in qualche angolo del suo e del nostro patchwork personale, o impaginato all’interno di un’ideale enciclopedia cinefila. A questo serve (oltre che per l’indispensabile ricostruzione storica) la scelta dell’abbigliamento, gli oggetti, le scritte, i brand pubblicitari, le acconciature, le locandine di film inventati, le tazze con l’effige del cowboy, la camminata e il look di DiCaprio sulle note di “Out of Time” dei Rolling Stones all’aeroporto. Sulle colonne sonore dei film di Tarantino si potrebbe scrivere un volume a parte. Ma questo lo sanno tutti.

Oltre ad essere un’arma artistica per ottenere un costante abbellimento a strati dell’audiovisivo, questa perizia maniacale e feticistica (che sovente possiede anche riferimenti interni alla filmografia tarantiniana) esalta, senza sosta, l’ambizione principale del cinema: raccontare per poter essere raccontato.

C’era una volta, appunto.

L’incipit di ogni fiaba come inno alla finzione. E nel caso specifico, l’esaltazione della dimensione analogica del racconto, la strisciante nostalgia di un mondo che fu, ma che può rivivere. Il trucco di Tarantino è la scelta della scorciatoia fatidica, del personaggio trasversale e periferico. Che in quest’opera è la chiave per narrare lo sgretolio di un mondo aggredito dal cambiamento sociale. Da grande regista, Tarantino sceglie in anticipo l’angolazione esatta, la luce giusta, il volto significativo, per poi costruirci intorno un  luna park citazionista.

Può permettere così a una controfigura di capovolgere la tragedia di Cielo Drive o semplicemente di farsi beffe di Bruce Lee, conservando per quest’ultimo l’adorazione illimitata del fan. Non solamente fan di Bruce Lee, ma di quello che Bruce Lee rappresentava all’epoca e di quello che, da icona, rappresenta nel patrimonio culturale odierno. Un retaggio pop da riraccontare e rielaborare in mille modi, come nella tradizione orale, celebrando perciò l’eredità accumulata dal personaggio negli anni a venire, con tutto il bagaglio di aneddoti, mitizzazioni, inesattezze, e forzature causate dall’azione costante e dall’inganno – anch’esso costante –  del tempo e dell’attività incessante dell’immaginario.

LA SCENA CULT

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